Einaudi ha pubblicato un saggio molto approfondito del premio Nobel Joseph Stiglitz: “La grande frattura. La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla ” (2016, 435 pagine, euro 22).

In questo saggio Stiglitz ha riunito le principali pubblicazioni relative alla dinamiche economiche e sociali legate alla disuguaglianza. La disuguaglianza è quasi sempre un problema politico e le lunghe esperienze socialdemocratiche dei paesi nordici dimostrano che è possibile vivere in una società molto produttiva e molto equilibrata.

L’economista americano riporta alcuni esempi di piccole nazioni che grazie a nuovi progetti politici sono riusciti a ribaltare ogni previsione: ad esempio Mauritius (una piccola isola africana situata nell’Oceano Indiano non troppo lontano dal Madagascar), e Singapore (una città Stato situata tra la Malesia e il mare, formata da un gruppo di 63 isole e composta da varie etnie).

Ad esempio “Mauritius ha preso atto, vista la mancanza di risorse naturali, che la sua ricchezza erano gli abitanti… che l’istruzione per tutti era imprescindibile per l’unità sociale”, in una popolazione formata da particolari gruppi etnici e religiosi. I governi mauriziani non hanno sprecato il denaro in spese militari inutili e così possono offrire anche  il trasporto pubblico gratuito a giovani e anziani. I mauriziani godono di spese sanitarie gratuite, della proprietà della casa (87 per cento dei casi). L’economia agricola si è ridotta e si è sviluppata l’economia tessile, turistica e finanziaria.

Nel 1965 la città di Singapore fu espulsa dalla Malesia, ed “era un paese povero, con un tasso di disoccupazione del 25 per cento” (p. 319). Negli ultimi anni Singapore ha investito molto denaro nell’istruzione e nella ricerca scientifica. Oggi Singapore è diventato il quarto centro finanziario del mondo ed è il paese con il maggior numero di milionari in rapporto al numero di abitanti.

In Occidente il grande aumento della produttività nel settore industriale e in quello dei servizi ha creato un grande surplus di lavoratori manuali e intellettuali, mentre durante la crisi del 1929 ci fu il grande surplus di lavoratori agricoli causati dai rapidi progressi nello sviluppo delle macchine agricole. Fino a un secolo fa “circa il 70 per cento della forza lavoro serviva a produrre il cibo necessario alla sopravvivenza. Oggi meno del 3 per cento produce più di quanto una società di obesi sia in grado di consumare. Non è automatico che chi perde il lavoro ne ritrovi un altro” e il ceto medio indebolito svolgendo lavori sempre più precari non può sostenere i consumi (p. 390).

Molto probabilmente il surplus di lavoratori agricoli è stata la causa remota della crisi finanziaria del Ventinove: la meccanizzazione agricola ha avuto origine negli Stati Uniti. Quindi l’attuale riorganizzazione manageriale continua basata sulla formazione, sui software intelligenti e sulla robotica specializzata, crea un grande surplus mondiale di lavoratori manuali (operai, ecc.) e cognitivi (impiegati, addetti ai servizi, anche bancari), e porterà a un’altra grande crisi finanziaria.

Oggi esiste anche un problema fiscale aggiuntivo in molti paesi: il lavoro umano è tassato molto di più delle rendite da capitale e il lavoro delle macchine e dei software è difficile da tassare. L’unica soluzione sembra essere quella di detassare il lavoro, ma ad esempio negli Stati Uniti “l’attuale sistema tassa i capital gain, vale a dire i profitti della speculazione, a un’aliquota molto più bassa rispetto a stipendi e a salari” (e il reddito da speculazione può essere trasmesso ai familiari in regime di detassazione).

Comunque “non esiste un semplice nesso di causalità fra disuguaglianza economica e stabilità sociale misurato in base alla criminalità o alla violenza civile. Né l’una né l’altra forma di violenza sono correlate ai coefficienti di Gini o agli indici di Palma… Vi sono, invece, nessi reali tra violenza e disuguaglianza orizzontali che associano la stratificazione economica alla razza, all’etnicità, alla religione o alla regione di appartenenza. Quando i poveri appartengono a una determinata razza, etnia, religione o regione, si innesca spesso una dinamica letale e destabilizzante”, che può avere conseguenze molto gravi: possono scoppiare rivoluzioni e guerre civili (p. 299).

Joseph E. Stiglitz insegna alla Columbia University e vive a New York. Nel 2001 ha vinto il premio Nobel per l’Economia, oggi scrive sul “New York Times”. Nel 2002 ha pubblicato La globalizzazione e i suoi oppositori, nel 2010 è uscito Bancarotta. Una economia per l’uomo è la sua ultima pubblicazione (Castelvecchi, 2016).

Per approfondimenti video: www.youtube.com/watch?v=KAmWWwxWnUs (Festival dell’Economia di Trento), www.youtube.com/watch?v=K1BvKDfpJ6A (ESCP Europe).

Nota – “Una maggiore disuguaglianza indebolisce non solo l’economia, ma anche la democrazia” (p. 335). Nei paesi nordici si vive piuttosto bene, ma “A nessuno piace pensare male di se stesso o del proprio sistema economico. Vogliamo sempre credere che il nostro sia il migliore del mondo”.

Nota sull’Australia – “L’Australia è una delle poche economia basate sulle materie prime a non aver sofferto della maledizione delle risorse naturali”. La prosperità non è stata scippata da un ristretto gruppo privato o governativo, ma è stata condivisa. Infatti le risorse naturali si possono tassare facilmente: i giacimenti di ferro o di gas non si possono trasferire all’estero. In Australia i prestiti agli studenti sono stati fatti a condizioni molto vantaggiose e non con lo spirito usuraio di stampo americano (in Australia i pagamenti sono calibrati sui redditi reali degli anni lavorativi).

Nota sulla Cina – I cinesi risparmiano troppo. “In parte, le persone economizzano a causa delle carenze dei programmi governativi di previdenza sociale” (p. 351). Forse in Italia esiste un problema simile, che riguarda soprattutto le persone anziane e quelle molto anziane.

Nota sulla Spagna e sull’Italia – “Nessuna grande economia… è mai riuscita a uscire da una crisi imponendo l’austerità… Gli unici esempi in cui al rigore fiscale si è affiancato il recupero si riferiscono a paesi in genere con tassi di cambio flessibili e i cui partner commerciali crescevano con solidità; questo faceva si che le esportazioni colmassero il vuoto creato dai tagli alla spesa pubblica” (p. 376).

Nota sulle banche – Stiglitz avrebbe voluto “salvare le banche senza salvare i banchieri e i loro azionisti e obbligazionisti”. In un certo senso questo avviene quando si procede con la svendita di una banca in crisi a una banca in salute, ma la cosa più giusta da fare sarebbe quella di lasciare la libertà a tutti i depositanti di poter trasferire i loro soldi in un’altra banca, dato che in gran parte si tratta solo di numeri. Tutte le banche infatti lavorano in un regime di riserva frazionaria e i nostri soldi sui conti correnti sono solo numeri, fino al giorno in cui decidiamo di prelevare un certa somma in contanti. La detenzione di un livello minimo di denaro contante è accuratamente programmata di giorno in giorno, anche perché le banche non guadagnano con la gestione del denaro contante.

Nota personale – Forse se lo Stato non facesse pagare le tasse e creasse online il denaro per pagare i servizi statali si formerebbe una forma di economia con un tipo di inflazione bassa e programmata, molto più utile e salutare per tutti (ricchi, meno ricchi e tutti i tipi di poveri).