Siamo in fase di progettazione dei laboratori didattici che, nell’anno scolastico che si aprirà a settembre prossimo, proporranno a docenti e studenti degli Istituti superiori di Trento, Padova e province una riflessione su migrazioni e diritto al futuro. In questo periodo mi capita perciò spesso di chiedermi come restituire autenticità a questi temi, dopo che infiniti dibattiti sono stati aperti e infinite frontiere sono state chiuse, geografiche e mentali. Mi interrogo su quali spunti siano più opportuni per coinvolgere le persone, nascoste dietro i gusci di queste vite a rincorsa, dentro pelli e tradizioni e abitudini diverse, eppure tutte, irrimediabilmente, avvolte da un destino comune. E umane, (im)perfette, fortunate o sfortunate.

Soprattutto mi chiedo quali prospettive riusciremo a condividere con ragazzi e ragazze adolescenti al di là della sfiducia del quotidiano, di quel senso di impotenza che pervade le esistenze dei singoli di fronte alle correnti politiche, economiche e marine che decidono il mondo di oggi e domani. Tra le maree – ed è proprio il caso di dirlo – di pensieri e materiali che si trovano online, c’è una storia che mi piacerebbe raccontare loro, quella di Jacob e Lena.

Jacob e Lena sono due ragazzi di 20 e 23 anni, berlinesi, fondatori dell’associazione Jugend Rettet. Mi piacerebbe raccontare la loro storia perché a vent’anni deve ancora appiccicartisi addosso l’indifferenza. A vent’anni puoi decidere di fare cose che non crederai possibili quando di anni ne avrai qualcuno in più. Assieme a un gruppo di amici Jacob e Lena hanno osato, creduto nelle possibilità dei loro giorni giovani e sconsiderati, quando le idee apparentemente più strampalate diventano realtà più in fretta del previsto.

All’inizio dell’estate dello scorso anno hanno lanciato una campagna di crowdfunding. Nessuna start up innovativa, nessuna colletta per le vacanze: volevano comprare una nave. Sistemarla e renderla adatta ad andare per mare in condizioni di pericolo per aiutare chi, da condizioni di pericolo, scappa ogni giorno. Un’idea assurda per molti, per molti altri invece un’idea da sostenere, tanto che l’operazione ha raccolto in breve tempo donazioni per una cifra che supera i 300 mila euro.

Obiettivo: partire presto, con un equipaggio di esperti e di volontari, insieme per pattugliare mari e coste per sei mesi. Perché è anche così che si provano a cambiare le cose, con i mezzi che si hanno a disposizione, con l’aiuto di tanti, con idee coraggiose e credibili nella gestione e nella motivazione.

Certo Iuventa, la nave olandese acquistata a maggio 2016 e dotata di tutte le caratteristiche necessarie al compito che dovrà svolgere, è un contributo di emergenza, non è un progetto di lungo periodo. Ma è necessaria per salvare vite umane lì dove le politiche che di umano portano solo il nome non riescono ad intervenire. Lo fanno invece i giovani, quegli adolescenti che alcuni chiamano “bamboccioni” e che danno invece prova di estremo pragmatismo e irriverente generosità. E che imparano – e insegnano – che le cose fatte bene sono quelle fatte insieme, per esempio con Greenpeace, che li accompagna in questa sfida con i consigli di chi ha già esperienza di anni e battaglie.

La sfida nasce non solo all’insegna di un impegno pratico e urgente ma anche, attraverso una piattaforma indipendente, allo scopo di creare relazioni e tessere reti su quest’Europa distratta e insufficiente, promuovendo il punto di vista dei giovani, di coloro che proprio su quest’Europa (o su quello che ne rimarrà?) dovranno muovere i passi del loro futuro, e non vorranno certo calpestare le macerie di un’umanità annacquata. E sono loro, i giovani, gli ambasciatori del progetto, per ora distribuiti prevalentemente nel nord del Continente in più di 37 città; sono loro ad aver fatto proprio l’impegno a continuare l’operazione, sollecitando donazioni che permettano all’iniziativa di proseguire: al momento il finanziamento copre il primo mese di navigazione, ma la tragedia, lo sappiamo, non ha scadenze ravvicinate, anzi, ha numeri che ne incidono drammatici contorni.

La ricerca quindi non si orienta solo al sostegno economico per la copertura dei costi vivi (carburante, attrezzature di salvataggio, assicurazione, cibo, vestiti e coperte), ma anche al reclutamento di personale qualificato per condividere la rotta. Un compito che, è chiaro, è molto più grande delle possibilità di questi ragazzi. Eppure loro ce la stanno mettendo tutta, e stanno ottenendo risultati al di là di ogni aspettativa, soprattutto al cospetto di istituzioni che si muovono con snervante lentezza di fronte al repentino evolversi di migrazioni disumane nei mezzi e nelle condizioni. E lo fanno con il coraggio dei loro vent’anni, che riconferisce valore e concretezza alle parole “aiuto umanitario”.

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