Patrizia Cecconi dedica il suo lavoro alla denuncia delle violazioni dei diritti umani e alla natura, ma la maggior parte del suo interesse è diretto verso il popolo palestinese. Può vantare all’attivo numerose pubblicazioni su testate giornalistiche nazionali di rilevante importanza e libri di cui è autrice e/o curatrice. Come presidente dell’associazione Oltre il Mare onlus, la sua attenzione è diretta alla realizzazione di un progetto portato avanti a livello personale, del quale oggi ci illustrerà le possibilità future. Il progetto è quello di valorizzare un angolo desertificato della terra di Palestina, dal nome di Ibnatu Canaan, e vanta il raggiungimento del primo importante obiettivo: grazie a una campagna di crowdfunding, è riuscito a raccogliere ben 3.090 euro per installare la prima cisterna e creare così ulteriori miglioramenti per questo territorio. Questo progetto, e ovviamente i suoi sostenitori, è riuscito a dare un senso alla parola pace, in un territorio arido come quello della zona della Jordan Valley, e a creare un’oasi con piante che rappresentano la storia del territorio di Palestina – una storia antica – attraverso fiori, foglie e poesie che in passato sono state dedicate a questi da antichi artisti arabi. Sembrava inizialmente l’utopica idea di pazzi sognatori, quella di creare un’oasi, come lo è il senso che molti di noi danno alla riconciliazione ed alla giustizia, ma stanno dimostrando al mondo intero che è possibile, attraverso la costanza e la determinazione, realizzare un’idea difficile ma non impossibile.

Quali sono stati i principali obiettivi del vostro progetto e quali avete raggiunto sino ad oggi?
Partendo da una situazione di furto generalizzato dell’acqua che ha desertificato o reso difficilmente coltivabili molte terre palestinesi, ti rispondo che il nostro obiettivo è quello di restituire un pezzettino dell’antica bellezza naturale a un angolo di terra nella valle del Giordano, che vorremmo diventasse un’oasi polifunzionale. Vogliamo dare un esempio di forza, oltre a una valenza politica e culturale, e ovviamente estetica. Fino ad ora abbiamo raccolto molti consensi, molte congratulazioni e soprattutto auguri per questa impresa all’apparenza impossibile. Abbiamo inoltre raccolto, attraverso una piattaforma di crowdfunding, quanto basta per collocare una cisterna, e stiamo andando avanti ancora qualche giorno con la raccolta per poter costruire la struttura dei nostri laboratori tecnici e artistici. Per conoscere meglio il nostro progetto basta andare su www.eppela.com/it/projects/9651-ibnatu-canaan-un-oasi-per-cominciare

Quali sono le difficoltà che avete riscontrato a livello pratico e burocratico?
A livello pratico è stata una dura lotta per le condizioni oggettive del luogo: il caldo terribile, la desolazione di un luogo che un tempo era un bananeto e che oggi è privo di foglie, i rapporti con i pastori beduini che dovevano imparare a fidarsi di noi e poi l’attenzione a un incontro culturale – in senso antropologico – che non fosse né di sopraffazione né di sottomissione. Dal punto di vista burocratico il mio socio, cioè il “padre” di Ibnatu Canaan, nome del progetto e della terra, ha avuto serie difficoltà per l’acquisto del fondo, dovute al fatto che lo stato (fantasma) di Palestina è diviso nelle aree A, B e C. Altrettanto difficile sarà l’ottenimento delle varie autorizzazioni. Ma noi abbiamo un’idea precisa in testa e sappiamo che ce la faremo.

Come attivista e donna europea quali sono le tue conclusioni sulla gestione delle risorse in Palestina?
Sono un’osservatrice e un’attivista per i diritti umani che in particolare si occupa di Palestina da molti anni. Osservo, scrivo e racconto. Le mie conclusioni sulla gestione delle risorse non sono diverse da quelle che la semplice osservazione dei fatti mostra a qualunque osservatore onesto, non ipnotizzato dalla narrazione sionista: Israele si è appropriato, e seguita ad impadronirsi o cerca di farlo quotidianamente, di tutto quello che la Palestina ha di positivo, a partire dalle risorse turistiche legate ai siti archeologici per arrivare all’acqua, nonché alle riserve di gas naturale che si trovano al largo della Striscia di Gaza. Riserve che, non a caso, non rende disponibili ai legittimi proprietari, i palestinesi, mentre le istituzioni internazionali continuano a essere assenteiste sia da un punto di vista pratico che burocratico. Se i governi occidentali seguiteranno a sostenere il progetto israeliano già delineato prima del ’48 come “Piano Dalet”, alle istituzioni palestinesi resterà soltanto l’appalto di poche risorse che Israele gli lascerà gestire e niente di più.

Da dove si dovrebbe ripartire per ridare ai diritti umani nei territori occupati quel senso di giustizia che ad oggi non è stato raggiunto?
Sono a mio parere due i punti da cui ripartire: la ricostruzione della verità contando sull’onestà e la preparazione dei media mainstream, che finora non hanno mai dimostrato la giusta attenzione, ed infine imporre il rispetto delle oltre 70 Risoluzioni ONU ignorate da Israele. Affinché entrambi i punti vengano rispettati, vi è la necessità che i tanti governi democratici che oggi sostengono Israele sospendano il loro sostegno finché quello Stato non arrivi a osservare la legalità internazionale. Questo significherebbe la fine dell’occupazione e dell’assedio, la restituzione delle risorse e delle terre confiscate illegalmente, la fine del regime di apartheid a danno dei palestinesi, compresi quelli definiti arabo-israeliani e, in definitiva, il trionfo, benché tardivo, della giustizia come unico e vero fondamento per la pace.