Intervista a Nino Fezza, cine reporter italiano che ha all’attivo 30 anni di guerre e di video reportage, inviato Rai per molti anni in cui ha osservato la morte, ma anche conosciuto il senso reale della parola speranza. La sua esistenza si è svolta quasi interamente tra le macerie e i conflitti mondiali, sino a quando un giorno scelse di cambiare vita all’improvviso, decidendo così di non osservare più quel mondo tramite un obiettivo, ma collaborando attivamente con associazioni come @uxilia e Maram Foundation e stando accanto a quelli che lui ama definire gli ultimi.

Cosa pensi della comunicazione dei media oggi a proposito dei conflitti?

Esistono molte storie quando si raccontano le guerre, ma ce n’è una che non viene raccontata mai; ogni giorno menzioniamo fatti diversi inseguendo l’attualità: ora c’è Idomeni, prima Lesbos, il Brennero e via dicendo. Gravissimo errore che viene commesso dall’intera comunità, perdendo di vista i veri grandi problemi. In tutti gli anni in cui ho filmato gli accadimenti mi sono occupato delle cause delle guerre; ho imparato una lezione da tutto questo e cioè che le cause sono sempre le stesse. Mi resi conto un giorno che in realtà esistono due guerre: quella ufficiale che raccontano tutti i giornalisti e i media e quella degli ultimi, quella degli sconosciuti, dei bambini, degli anziani e delle donne. Questa è la guerra silenziosa.

Raccontaci le guerre silenziose che ti hanno portato a cambiare la tua vita all’improvviso, facendoti abbandonare il lavoro di video ripresa per i media.

Le guerre silenziose durano più di quelle ufficiali: come ben sapete, in Siria si combatte ormai da 5 anni. Prima o poi finirà, anche se al momento può sembrare impossibile. In Africa vi sono guerre durate 25 e anche 30 anni, fa parte della vita, tutto termina prima o poi. Ufficialmente quelle delle alleanze e dei giochi politici e i bracci di ferro tra le grandi potenze comportano la spartizione dei paesi, delle risorse del sottosuolo, mentre dimentichiamo la guerra reale che non si fermerà anche dopo, che è quella dei bambini. Provate a immaginare milioni di persone, si calcola 4.600.000 siriani al di fuori del paese, altri milioni di profughi all’interno, che si spostano da un quartiere all’altro e da una città all’altra senza mai fermarsi. Cosa accadrà? si chiedono tutti… Molto semplice: questa guerra terminerà, non se ne parlerà più, mentre loro sceglieranno la fuga. Conosco bene i campi profughi, sono posti infernali, non sicuri e pericolosi. Territori sovrastati da estensioni di tende infinite dove non vi è toponomastica, senza strade, senza luce e sicurezza. Ci si trova così esposti a tutti i pericoli della gente disperata, dove l’istinto di sopravvivenza dell’uomo porta a fare del male al proprio simile.

Cosa accade ai bambini in queste situazioni?

Semplice: a pagare sono sempre loro, sono vittime di prostituzione, utilizzati, maltrattati, rapiti e violentati da tutti. Dove ci sono forze importanti come le Nazioni Unite ecc… scorre denaro e quindi si muove più facilmente il contrabbando, spesso purtroppo tra le popolazioni stesse. Rendiamoci conto che non è straordinario che un padre possa vendere una figlia, nella disperazione anche questo fa parte della normalità. Situazioni come queste albergano soprattutto nei campi profughi spontanei, dove nessuna Ong o organo di controllo può mediare la violenza. Io oggi ho più di sessant’anni, se vengono rubati sei anni della mia vita, pazienza, non importa, ma se a un ragazzino rimuovi quegli anni dalla sua esistenza e per di più lasciandolo vivere nella violenza, cosa farà nella sua vita se non ciò che gli è stato insegnato, ossia violenza? Ho avuto il dispiacere di osservare inerme intere generazioni perdute in Monzambico, Angola, Congo, Ruanda, conseguenza dei giochi geopolitici come di Obama, Putin, Emirati ecc…

Ti occupi per passione dei bambini e della loro tutela. Cosa pensi di ciò che accade ai minori non accompagnati e delle loro sparizioni in Europa?

Questo era un fenomeno prevedibile che non siamo stati in grado di affrontare. Rendiamoci conto che gli sbarchi provenienti anche dalla Libia si possono definire un’arma di guerra.

Le tue fotografie hanno una particolarità: sembra che ti stiano osservando, mentre è il contrario perché gli osservatori siamo noi. A cosa è dovuta questa scelta?

Io amo fotografare visi, effettivamente sono sfuocate nello sfondo, vengono reputate inquietanti e ho scelto appositamente questo taglio perché non voglio si noti cosa accade alle loro spalle. Se li osservi frontalmente sarai portato a guardare, se invece sposti l’angolazione è lui che ti trascina verso il suo punto di osservazione. Un elemento di curiosità in più che tiene su la fotografia.

Viene da pensare che un uomo come te non abbia paura di nulla. È una visione reale questa?

La paura è sempre una compagna di viaggio, guai a non aver paura….la paura ti aiuta a tenere sempre alta l’attenzione….la paura ti salva la vita. Nella mia vita ebbi un attacco di panico: mi trovavo in Amazzonia molti anni fa, con un collega per un servizio sullo sfruttamento dei bambini nelle cave di pietra. La temperatura era intorno ai 45 gradi e ragazzini con dei martelli pesantissimi operavano perché questi macigni venissero sbriciolati per creare la ghiaia, solamente per cento lire al giorno. Mi bloccai all’improvviso, mi calmarono, ma scelsi di non restare e tornai indietro. Non fu questo l’unico evento a farmi dire basta, dopo una serie di circostanze che mi trascinarono un passo avanti e due indietro feci la mia scelta.

Per quale motivo continui a raccontare la guerra, se in realtà sembra che nulla stia cambiando?

Perché non so fare altro, è la cosa che mi riesce meglio. Un bambino morì di fame di fronte alla mia videocamera, si chiamava Madid. Ne ho visti morire a centinaia; continui a raccontarli, ma non basta. Molti dicono: “Ogni bambino che muore è una sconfitta per l’umanità”. Per me invece “ogni bambino che salviamo è una speranza per l’umanità”.

Fotoreportage di Nino Fezza