Un’antica iscrizione latina che veniva apposta sulle meridiane solari, a Torrita di Siena passeggiando per le antichissime vie se ne ritrova traccia inscritta in un antico simbolo, una lanterna. Tradotto letteralmente significa “Dall’ombra viene la luce”, un antico paradosso in termini, tre semplici parole che quando le lessi nell’estate dell’anno scorso, risuonarono profondamente dentro di me, una frase di cui ho cercato di ritrovarne l’origine storica e antropologica, purtroppo per il momento senza riuscirci.
Però, “umbra” in latino aveva anche un altro significato, quello di morte o “ombra della morte”.
Così in un’altra accezione del termine “Ab umbra lumen” assume anche il significato, “Dalla morte viene la luce”.

Lanterna

Buffo riflettere sul fatto che la meridiana solare funzioni per via del sole ma anche grazie all’ago della meridiana, detto “gnomone”, il quale produce una lama d’ombra, frapponendosi tra la luce del sole ed un determinato piano su cui sono riportate le ore. In presenza di piena luce solare, non c’è ombra e senza ombra non si scandiscano le ore del giorno. Concetto che sono certo non fosse affatto sfuggito agli antichi, ben prima dell’avvento del cristianesimo, specie constatando la presenza sulle antiche meridiane, di frasi e massime che si prestano a molteplici interpretazioni.

Illuminante sapere che il termine “gnomone” (l’indicatore della meridiana) deriva dal greco antico gnṓmōn che indica “colui che conosce”  e possiede la stessa radice di gnostico, in greco antico gnṓstikōn che significa cognizione o anche dottrina, gli gnostici, spazzati via dal cristianesimo ufficiale e considerati pericolosi eretici, erano gli affiliati ad un’antica setta operante in Siria e in Egitto di cui si trova traccia già dal VI secolo avanti Cristo, essi sostenevano di conoscere una sublime e arcana dottrina basata sulla conoscenza e la scienza d’intendere e di spiegare a tutti le cose sovrannaturali.    

Su Wikipedia, alla voce “morte”, si trova questa interessantissima definizione: “La morte non può essere definita se non in relazione alla definizione di vita, definizione anch’essa piuttosto ambigua. Da una visione atea, in un punto spazio-temporale infinito, la morte non esisterebbe in quanto l’universo non perde comunque le proprie funzioni, essendo, quindi, una condizione relativa” e ancora “Il termine “vita” si contrappone solo parzialmente al concetto di “morte” ma anche al significato di “non vita”, in quanto la condizione della materia morta non coincide affatto con quella della materia che non ha mai avuto vita.”

La morte secondo la nostra società

Già solamente nelle due precedenti affermazioni ci sarebbero spunti per riflettere e ricercare molto a lungo.

Però purtroppo, dobbiamo partire dal presupposto che sul tema della morte, in genere, non si parla quasi mai, la nostra società ce la fa vivere come uno spauracchio, un tabù, sul quale, meglio non mettere attenzione, né su cui riflettere. Una cultura, la nostra, che non vuol mai trattare il tema più profondo legato al concetto di morte ma che al tempo stesso genera e diffonde morte tramite il mantra ipnotico di “produci, consuma, crepa” a suo tempo provocatoriamente sintetizzato in una canzone di un gruppo punk italiano.
La religione ufficiale, l’unica preposta a trattare il tema, salvo rare eccezioni, lo affronta in maniera dogmatica ovvero o credi o non credi e se si è abituati a porre troppi interrogativi ovviamente questo cozza con il concetto stesso riferito al credere.
Difficilmente si entra nell’argomento con una reale intenzione di comprendere, di condividere, di comunicare esperienze, di ragionare sulla morte, ne siamo incapaci, non ce lo hanno insegnato, anzi ci è stato insegnato che è meglio non parlarne proprio, come se il solo fatto di parlarne in qualche modo potesse evocarla.
In pratica, per tutta la nostra vita, rimaniamo soli con questo tema fondamentale della morte, che poi nel tempo, si traduce in una sensazione di cui abbiamo una paura profonda e incontrollata. E’ questa profonda paura, vissuta in estrema solitudine che poi condiziona tutta la nostra vita, influenzando molte delle nostre azioni e delle nostre scelte.

La morte vista da bambini.

Personalmente, a lungo mi sono interrogato sulla morte e sul suo reale significato e da tempo mi sono domandato se condividere pubblicamente o meno, una personale esperienza che la riguarda.
Un fatto che prima d’ora, avevo condiviso con pochissime persone, oltre a quelle persone che stavano con me quel giorno.
Negli anni mi sono spesso trattenuto dal farlo, in parte per non voler confliggere con le credenze altrui, in parte per proteggere questa particolare esperienza, per paura del giudizio, trattandosi di questione realmente intima e personale.
Ma oggi, considerati i tempi che almeno per certi aspetti reputo un po’ più maturi, considerata la provvisorietà della nostra permanenza sulla terra, la necessità manifestata da sempre più persone di condividere domande ed esperienze sul tema ancora insoluto della morte, ecco che ritengo che condividere quest’esperienza, potrebbe forse esser da spunto per ulteriori comuni riflessioni.
Durante la mi esistenza ancor più che nella morte, ho sempre creduto smisuratamente nella vita, ne sono sempre stato innamorato, fin da bambino. Talvolta inebriandomi così tanto della vita che essa ha generosamente ricambiato, riempiendo spesso il mio cuore e i miei pensieri, a tal punto da farmi volare altissimo e mandarmi in estasi. Altre volte trasportato dalla forza stessa di questa vita, senza volerlo, ho arrecato dolore proprio alle persone a cui volevo più profondamente bene. Altre ancora, nell’impeto di correre a perdifiato e di volare troppo in alto, sono inciampato, precipitando in fondo a degli abissi, la cui risalita è stata dura e dolorosa.
Ed è proprio da piccolo che sovente facevo due sogni, in uno, volavo in alto, librandomi nel vento come un uccello, ma poi precipitando morivo, in un altro fuggivo dentro a un bosco mentre una figura m’inseguiva e raggiungendomi, mi pugnalava al ventre uccidendomi. Come accade sempre quando si muore in sogno, mi ridestavo.
Svegliandomi, nei miei pensieri di bimbo, mi domandavo, come fosse possibile che la vita abbandonasse un corpo, un corpo in movimento, intriso di vita, pieno di gioia e di vigore.
No, non riuscivo proprio a concepirlo, semplicemente non credevo alla morte come cessazione della vita, non lo ritenevo un evento plausibile, né possibile, giacché avevo ancora in me fortissima la sensazione della vita che mi riempiva, una vita che sentivo così forte e presente, come se essa mi appartenesse da prima della mia venuta al mondo.
Pensavo, “posso godere di tante fantastiche cose, ho tutto un mondo davanti da scoprire, pieno d’infinite bellezze e cose da imparare, sento la gioia e l’emozione per la vita che mi riempiono il petto ed i pensieri… No, non riesco proprio a immaginare come sia possibile che tutto questo un giorno, possa finire.”
E così, il mio cuore, la mia mente e anche il mio giovane corpo di bambino, non ci credevano alla morte, semplicemente per me non esisteva. Questa credenza, in me, era avvalorata anche dal fatto di sapere che in sogno si moriva ma poi risvegliandoci non si moriva mai veramente.
Così, per parallelo, pensavo che anche in vita se si muore, nella realtà poi non si muore mai veramente, risvegliandoci di nuovo.

Paura, ingiustizia e contraddizioni

Questa visione “eternalista” fu presto smontata, quando prima dei miei otto anni arrivarono i primi lutti in famiglia, con la morte dei miei tre nonni; in un breve lasso di tempo se ne andarono, uno appresso all’altro.
Capii allora che la morte esisteva, era reale e arrivava quando voleva lei, senza nemmeno chiedere il permesso. Si presentava all’improvviso, interrompendo qualsiasi cosa si stesse facendo. Si fosse stati tristi o anche allegri, non importava, “lei” arrivava portando via tutto con se, gioie e speranze, affetti ed amicizie, scoperte e cose da scoprire.
All’epoca spesso interrogavo la chiesa e i preti sul tema in questione, però sentivo che in merito non mi davano mai risposte convincenti . C’erano lacune, omissioni, profonde contraddizioni, in molto di ciò che mi veniva detto, in definitiva, alla fine dei salmi, mi si chiedeva di credere alla vita eterna dopo la morte solo per il fatto che qualcuno più grande di me, lo diceva, a patto però che ci si fosse comportati bene, altrimenti erano guai, guai seri.
Da bambino, se ci fu qualcosa che più di tutto mi allontanò dal credere ad una vita dopo la morte, furono proprio i vuoti discorsi che mi sentivo ripetere durante le lunghe ore di catechesi.
Su questa storia della morte, nessuno dava risposte convincenti, neppure la maestra, fra i grandi non c’era uno che ne volesse parlare, tutti la rifuggivano e si voltavano di là, senza guardarla oppure la spiegavano dogmaticamente.
Così, in mancanza di risposte, il pensiero successivo che elaborai fu, “beh, ho soltanto otto anni e un sacco di tempo davanti a me, quasi un’eternità, non ci pensiamo, poi si guarderà.”
Ma poco dopo subentrò anche un altro pensiero, mio padre che allora aveva già cinquantadue anni, presto, molto prima di me, secondo l’ingiusta legge della vecchiaia, sarebbe morto e dopo anche mia madre e dopo ancora mio fratello maggiore e mia sorella e infine tutte le persone a cui volevo bene. Facevo i conti degli anni e mi dicevo “quando accadrà avrò quaranta o cinquanta anni, sarò grande e forte e non sarà un problema”.
Ma il problema rimaneva, sapevo che alfine, sarei rimasto solo…….e da solo, sarei morto. Questo pensiero mi terrorizzò più di tutti, non era tanto la paura della morte a spaventarmi, bensì il rimanere soli, come cani, anche nell’ora del trapasso, senza che lo si fosse scelto.
Da quel momento, la sera, prima di dormire, spesso si faceva strada in me un senso di morte e solitudine, così forte e presente che il trucco di pensare che tutto ciò sarebbe successo in un’epoca molto lontana, non funzionava più.
Questa triste consapevolezza, lasciò in me un’ombra per lungo tempo, un senso di profondissima ingiustizia, un’ingiustizia crudele e assolutamente intollerabile.
Nei miei pensieri di bambino, mi chiedevo: “ma quale Dio può essere così crudele da farti dono della vita, una vita talmente bella e così gioiosa e poi farti la cattiveria, dapprima di portarti via tutti, lasciandoti solo e poi di portarti via anche la vita che prima ti aveva donato?”
Pensavo ai milioni di bambini del Biafra che all’epoca ci facevano vedere a scuola in foto, con le loro pance gonfie per la denutrizione, ricordavo più di tutto la rassegnazione nei loro occhi, tale che neanche più provavano a scacciare le mosche che a decine gli si posavano sul volto.
Pensai a tutte le persone che soffrivano, che morivano da soli nel silenzio, ai barboni che avevo visto da vicino, sdraiati al freddo dell’inverno, nelle strade vicino la stazione.
Quale “Dio” poteva essere così crudele e spietato se permetteva la morte, le sofferenze, le ingiustizie e tutte queste brutte cose?
Quel giorno, mi risentii profondamente con “Dio”, almeno con quel “Dio” per come, fino allora, me lo avevano spiegato.
Da allora, per lungo tempo, portai dentro di me quest’ombra, quest’ingiustizia, a cui nessuno, riusciva a dare spiegazione.
Fu lì, che nacque un profondo spirito di ribellione, mi dicevo, “se Dio permette queste cose e poi nemmeno se ne interessa , allora è un egoista ed io, per ribellarmi, farò il contrario interessandomi delle persone”.

Nell’amore disinteressato un elemento di superamento e un principio di trascendenza.

Con questa rabbia e questo senso d’ingiustizia a lungo ho convissuto, affrontando l’adolescenza, i primi distacchi dai miei fratelli a cui ero affezionatissimo, la mia uscita da casa, neanche diciasettenne, fino ad arrivare ad essere ragazzo grande, cresciuto in fretta, troppo in fretta.
Mi ribellavo a tutto, alle ingiustizie, ai soprusi, al destino infame, già scritto per i più deboli, all’autorità costituita del tutto insensibile al grido degli ultimi.
Dentro di me, albergava la stessa compassione per il mondo, la stessa gioia di vivere di quando ero bambino ma accompagnate da un carico di rabbia e un senso d’ingiustizia senza pari.
Ebbi solo una gran fortuna, incontrare un gruppo pacifista di nonviolenti, un po’ visionari ma che con spirito di pace, forza ed allegria volevano umanizzare il mondo.
La rabbia, poco a poco, anno dopo anno, si diluì di nuovo in sentimento di compassione, il senso d’ingiustizia in strenua volontà di far tutto il possibile per impedire altre ingiustizie, cercando di arrivarci insieme al prossimo per comprensione, più che per imposizione.
Restava ancora un tema del tutto invalicabile, la questione della morte.
E’ vero, nel tempo avevo letto i racconti di chi aveva avuto casi di premorte, avevo letto la testimonianza dove si affermava dell’esperienza trascendente della morte che lancia la vita verso l’immortalità.
Leggevo e cercavo di capire, ma come è risaputo, alcune esperienze sono raccontabili ma non trasmissibili.
In precedenza avevo avuto a che fare con eventi “particolari”, come ad esempio, vari sogni premonitori, fenomeni di proiezione dell’energia al di fuori del corpo oppure forme di comunicazione che andavano oltre la percezione verbale e anche quella visiva e spesso potevo captare gli stati d’animo di persone a me affettivamente vicine, senza però esserne fisicamente in contatto.
Tutte esperienze che mi avevano dato molto da pensare, ma niente che potesse comunque confermare oppure negare, la possibilità di qualcosa che andasse oltre la morte.
Così, da una parte c’era il forte desiderio di poterci credere ad una forma di trascendenza ma dall’altra c’era la mia fortissima razionalità e una logica ferrea che mi facevano vedere chiaramente la mancanza di sufficienti dati ed elementi certi che mi portassero a poter affermare o non affermare che qualcosa possa sopravvivere oltre la morte.
Una volta mio padre che in vita sua ne aveva viste davvero tante, alla mia domanda “babbo pensi che esista qualcosa oltre la morte?” rimase a lungo in silenzio e poi rispose “E’ probabile”. Una risposta la sua che non negava una possibile forma di trascendenza ma però nemmeno la confermava.
Restavo, da solo, nel mio non sapere, con il pensiero della morte che spesso, nel buio della notte, compariva, prima di dormire e che non prometteva davvero niente di buono.
Allora, con ancora più forza, mi davo al mondo, impiegando buona parte del mio tempo e delle mie forze al servizio per gli altri, oppure dedicandomi a imparare, entrambi le cose mi riempivano di gioia, mi sollevavano, mi facevano sentire una persona migliore, meno piccola. Fu allora che ebbi un’altra grande fortuna, quella di poter fare l’obbiettore di coscienza , un’esperienza che mi permise di dedicarmi ad altre persone assai più sfortunate della media, anziani soli, diversamente abili, ragazzi down, autistici, persone con problemi mentali.
Compresi che è fra i più sfortunati ed i “diversi” che è possibile trovare un’umanità senza eguali, una sensibilità fuori dal comune oppure una forma d’intelligenza completamente alternativa alla nostra. Sono queste persone nella loro diversità, che ti fanno dono della loro profonda umanità e non viceversa.
Quest’esperienza fu un’altra incredibile fortuna, aiutando gli ultimi, donavo un po’ di me stesso e loro in cambio, facevano dono di tutti se stessi, riempendoti la vita e non facendoti sentire più né rabbia, né ingiustizia, né paura, né dolore, né solitudine ma solo tantissimo incontenibile amore.
Dopo più di dieci anni, da quando bambino correvo felice per i campi, senza paura della morte, finalmente un segno, un’esperienza, un elemento che mi faceva sentire che l’amore, sì il sentimento d’amore incondizionato e senza secondi fini, era qualcosa di talmente potente che riusciva ad andare oltre la sofferenza e forse, anche oltre la morte.

Amore e morte

Carico di quell’energia e di quella consapevolezza, sentivo che dovevo condividerla col mondo intero.
E fu al culmine di quel sentimento d’amore universale, che giunse anche il primo vero amore ma di natura un po’ diversa, quello rappresentato dall’amore per una donna.
Fu bello e intenso, come volare in cielo e fu talmente forte che quando mi lasciò, precipitai nel vuoto, come dentro un abisso, proprio come nel sogno di bambino.
Ma, per quanto ne soffrii enormemente, in seno a quell’esperienza, celata in essa, ancora una volta, c’era un bel dono.
Non comprendevo il perché due persone che si sono amate, poi debbano perdersi di vista, passai momenti brutti, talmente brutti che il mio corpo era diventato un fascio di nervi, non respiravo e trattenevo, trattenevo sempre di più, lo stomaco era chiuso, non mangiavo e non dormivo e pensavo, ripercorrevo ricordi in un vortice senza fine e così il mio corpo si ribellò.
Senza preavviso, un giorno d’estate, su una spiaggia , al termine di una corsa forsennata, il mio cuore impazzì, andò in fibrillazione, veloce, sempre più veloce, fino a che il sangue non scorreva più nel corpo, dapprima la paura per il battito che non rallentava e accelerava all’impazzata, poi un dolore profondo e intenso, al centro del petto, come una mano con un maglio di ferro che stritola il cuore, poi si fermò, smise di battere ed io sentii la morte ch’era arrivata, alfine “lei” stava lì, accanto a me.
Non c’era più dolore, né paura, ma solo pace e tranquillità, il corpo stava lì disteso in terra, come staccato da me ed io un po’ più in alto che lo guardavo, la gente intorno che stava in cerchio, potevo sentirne le voci concitate e le domande, ma ciò non aveva più nessuna importanza, sentivo che me ne andavo che stavo piano piano allontanandomi dalla spiaggia, dal sole, dal corpo e da quel posto.
Ma, d’improvviso, potei sentire anche un’altra cosa, c’era ancora qualcosa che mi tratteneva al corpo, sentivo di essere trattenuto e al tempo stesso avevo la sensazione come di stare su una bilancia, il mio doppio energetico, così all’epoca lo chiamavamo, era diventato come una bilancia, oscillava da una parte all’altra, fra le cose fatte e quelle ancora da fare, tentennava, fra le cose risolte e quelle irrisolte, ondeggiando fra ciò che si era chiuso e ciò che invece era rimasto aperto.
Non potevo andare, non ancora, quell’attaccamento al corpo mi faceva sentire ancora trattenuto alle mie viscere che pesavano e mi comunicavano che dovevo terminare molte cose, che dovevo risolverne molte altre e che avevo necessità di chiudere tutto ciò che era rimasto aperto, in sospeso e soprattutto riconciliarsi e non portarsi dietro pesi.
Così, fui richiamato dal corpo stesso, il mio corpo mi richiamò, ne fui assorbito fino ad aderirvi, poi, sentii un forte colpo al centro del petto, come un cazzotto, dato da dentro, con violenza. Di nuovo, tornai a sentire dolore, come una mano che stringe il cuore e poco a poco lascia la presa, sempre di più, fino a sentire il cuore che nuovamente tornava a battere in petto, dapprima più veloce e poi più lento e regolare. Sentivo di nuovo il sole, il vento sulla pelle, sopra di me vedevo il cielo, sotto di me la sensazione della sabbia e in lontananza, il suono del mare.
Infine ero tornato, la mia breve “uscita” terminata.
Avevo 23 anni e tutta una vita ancora davanti per poter concludere quello che dovevo, per provare a chiudere il cerchio.
Oltre non sono mai andato, non ho visto la luce oltre l’ombra, né il tunnel, né pascoli fioriti, ma la morte, oh sì, la morte l’ho sentita, talmente vicina da riconoscerne il carattere profondamente compassionevole. Quando si passa il velo, non c’è paura, né dolore, né ansia alcuna ma solo profonda compassione, per quel che si è fatto e per quello che non si è riusciti a fare, per ciò che si è concluso e ciò che invece no, esiste solo la forte sensazione se riesci ad andar via riconciliato oppure se hai pendenze aperte, verso persone o esperienze non terminate.
Nel momento in cui si oltrepassa il velo, si percepisce con assoluta chiarezza, la necessità di dover terminare ciò che si è iniziato, dover chiudere il cerchio, dover compiere fino in fondo ciò per cui si è venuti al mondo o quanto meno di potere andare via in pace e riconciliati.
Cosa ci sia ancora oltre, non lo so, mi sono fermato appena poco prima, non voglio influenzare altri con le idee che mi son fatto, ognuno è giusto tragga le proprie conclusioni e creda in ciò che lo fa star meglio, ma certo so, che tutto non finisce con la morte e che questa è solo un passaggio.

So inoltre che mi ha aiutato molto richiamare l’antica sensazione di quando ero bambino, quella d’immortalità che c’era ancora prima dell’arrivo di tutte le altre “credenze” e mi faceva sentire, con straordinaria chiarezza, di esistere da sempre.