Una riflessione, per i tipi di “Multimage”, sul nesso di “pace con giustizia”

 

Il libro e-book curato da Gianmarco Pisa è scaricabile qui:

https://www.bookrepublic.it/book/9788899050207-corpi-civili-di-pace/

 

Alla vigilia della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto attuativo dell’art. 1 c. 253 della legge di stabilità 147/2013, che per la prima volta introduce in via normativa la sperimentazione di azioni civili di pace, e all’indomani dell’avvio della campagna per la Difesa Civile Non-armata e Nonviolenta, che traguarda, tra le altre cose e non senza contraddizioni, l’obiettivo dei Corpi Civili di Pace, anche in Italia, si avverte l’esigenza di mettere a fuoco la questione e di farla uscire dalle cerchie ristrette del dibattito specialistico, da “addetti ai lavori”. L’uscita, per i tipi di “Multimage”, dell’e-book dal titolo “Corpi Civili di Pace: esistono? chi sono? cosa fanno?”, che raccoglie ed approfondisce relazioni e spunti offerti in occasione dell’importante convegno tenuto in S. Bonaventura, a Napoli, lo scorso 13 gennaio, può rappresentare un contributo utile nella direzione auspicata, appunto quella di familiarizzare alla questione, senza dubbio delicata e complessa, e di articolarne la specificità, senza la pretesa di definire un “modello”, ma con l’ambizione, quella sì, di introdurre qualche elemento di chiarezza nel dibattito, sulle definizioni, sul profilo e sulle questioni in corso.

 

Quando si parla di “Corpi Civili di Pace” si parla di team composti da civili, disarmati, nel caso della nostra riflessione, in particolare, nonviolenti, che intervengono in zona di conflitto o di post-conflitto ed interagiscono con gli operatori e le operatrici di pace locali, per realizzare insieme tutte quelle iniziative e tutte quelle proposte che possono contribuire, essenzialmente, a prevenire l’escalation della violenza e la recrudescenza del conflitto armato, a facilitare occasioni per riaprire canali di comunicazione e ricostruire il tessuto della fiducia, e a favorire percorsi di ricomposizione e di convergenza, anche, ad esempio, aiutando gli operatori e le operatrici di pace del posto a collegarsi ed interagire o facendo sentire la loro voce e le loro istanze anche al di fuori del contesto specifico in cui vivono. Si tratta, soprattutto, di un lavoro di carattere sociale e culturale, in cui la componente relazionale e connettiva gioca un ruolo decisivo, ed in cui si cerca di costruire insieme spazi ed opportunità per la “pace positiva”, soprattutto in contesti in cui la guerra e la violenza rendono particolarmente difficile agli attivisti locali di operare ed alle loro voci di farsi sentire.

 

Pur essendo organizzazioni per la promozione della pace dal basso, è opportuno che i CCP siano riconosciuti a livello istituzionale, sebbene sia altrettanto necessario che gli stessi CCP non siano “istituzionalizzati”. Sarebbe ben difficile, infatti, fare convivere l’ispirazione e l’orientamento emancipativo e nonviolento, proprio dei CCP, con un loro presunto “inquadramento” governativo o burocratico. Non dimentichiamo che i Corpi Civili di Pace, per loro natura, sono una espressione della società civile organizzata e, in particolare, sono figli della lunga storia del movimento nonviolento, in Italia e all’estero, e del movimento per l’obiezione di coscienza al servizio militare, che, soprattutto in Italia, ha visto importanti protagonisti della storia democratica e nonviolenta del nostro Paese e dato luogo a campagne e mobilitazioni, per la pace e contro la guerra, spesso importanti e significative. Esempi di “Corpi di Pace” burocratici o governativi esistono e, tra questi, vi sono ad esempio i “Peace Corps” statunitensi: basta vedere le modalità di organizzazione del loro personale, o i contesti di crisi in cui sono inviati, oppure ancora la qualità dell’impatto del loro intervento, per farsi un’idea sufficientemente precisa delle commistioni tra obiettivi sociali e interessi governativi cui il loro essere “agenzia governativa” li espone. Sarebbe singolare, ad esempio, che “Corpi di Pace” fossero inviati in Kosovo dal governo dello stesso Paese che qualche anno prima vi aveva fatto la guerra: ciò esporrebbe gli operatori di tali presunti “Corpi di Pace” a contraddizioni gravi (come “strumenti del governo” che prima “fa la guerra” e poi “porta la pace”) e ne minerebbe alle fondamenta il progetto, l’autorevolezza e la credibilità.

 

Non di meno, i Corpi Civili di Pace, e, in generale, la teoria e la prassi dell’intervento civile di pace, rimandano anche alla capacità del movimento per la pace e contro la guerra, complessivamente inteso, di produrre una elaborazione all’altezza della sfida e una modalità di azione “sul campo” efficace, adeguata e coerente. Inutile nascondere che, in termini di impatto, come “movimento per la pace”, pur con tutte le sue articolazioni e declinazioni, siamo passati dallo scendere in piazza a milioni ed essere persino saliti agli onori delle cronache come la “seconda potenza mondiale”, all’indomani dell’aggressione all’Iraq del 2003, allo stato attuale in cui sembra essere esplosa una vera e propria “frammentazione” del movimento ed anche la storica Marcia per la Pace Perugia-Assisi ha registrato divisioni e defezioni. Da una parte vi è il tentativo di aggregare le diverse soggettività del movimento per la pace in “reti di affinità”; dall’altra si registra un preoccupante calo nella partecipazione e nella mobilitazione, che rende la stragrande maggioranza delle attivazioni per la pace che vengono proposte poco partecipate e poco richiamate sui mezzi di comunicazione. Difficile sottovalutare come, in tutto questo, si affermi anche un po’ il “segno dei tempi”, con la fine delle esperienze organizzate di massa e, persino, la “normalizzazione” del tema e del linguaggio della guerra, e si evidenzi l’assenza di una riflessione puntuale, attrezzata e rigorosa intorno a ciò che è la guerra oggi e a come si configurano gli scenari di guerra nel mondo attuale. Basti limitarsi ad alcuni esempi: alcune letture hanno scambiato il golpe di “EuroMajdan”, una sollevazione in buona parte organizzata militarmente e apertamente inquinata da elementi fascisti e nazisti, come una specie di “primavera ucraina”; hanno considerato Bashar al-Assad il principale responsabile delle atrocità patite dalla Siria nel corso degli ultimi quattro anni, quando perfino John Kerry riconosce l’opportunità di riaprire il dialogo con il governo siriano; hanno inneggiato, per tornare al nostro contesto di riferimento, all’“intervento umanitario” contro la Serbia di Slobodan Milošević, senza immaginare le conseguenze catastrofiche dell’aggressione della NATO della primavera del 1999.

 

Anche la vicenda più recente di “Greta e Vanessa” finisce per entrare in questo vero e proprio “corto-circuito”. Al netto delle strumentalizzazioni e delle polemiche che, soprattutto, la destra ha indecorosamente imbastito sul loro caso, non c’è dubbio che il loro possa essere già considerato come un caso di scuola del modo come “non si fa” la cooperazione e la solidarietà internazionale. A meno che non si ritenga – e sarebbe vergognoso – che entrare in un altro Paese a fornire kit militari a gruppi armati illegittimi, per giunta con inquietanti superfici di contiguità, tutte da indagare e da approfondire, con frange terroristiche, in lotta contro le istituzioni legittime del Paese, sia un buon esempio da seguire. Non vi è prezzo al valore della vita umana e non vi è riscatto che possa essere giudicato sproporzionato, se lo scopo è quello di salvare vite umane. D’altro canto, evitare di mettere inutilmente o avventatamente a repentaglio la propria incolumità e quella delle persone che ti sono vicine, dovrebbe essere il punto di partenza. La solidarietà internazionale, a maggior ragione il lavoro di ricostruzione della pace, non risponde al tuo bisogno di legittimazione o gratificazione, bensì al loro bisogno di condizioni di vita più dignitose e più giuste. È forse appena il caso di ricordare che l’intervento civile di pace e, quindi, il lavoro stesso dei Corpi Civili di Pace, agisce “su richiesta”, una “richiesta leggibile”: non siamo noi che decidiamo se e quando andare, ma si condivide con loro una sfera di azione ed una griglia di intervento. Se il conflitto è delle persone che lo vivono, è negli stessi popoli che si trovano tutte le potenzialità per superarlo. Altrimenti, si precipita nel neo-colonialismo.

 

Si faceva prima riferimento alla pace positiva. Ebbene, il nesso “pace” e “giustizia”, in particolare declinata nel senso della giustizia sociale, è così decisivo, nella letteratura e nella pratica, da essere alla base della nozione stessa di “pace positiva”, intesa come “pace con giustizia”, cui anche il progetto per i “Corpi Civili di Pace in Kosovo”, cui l’e-book rimanda, si ispira. Non si tratta di declinare la costruzione della pace come mera assenza della violenza o estinzione della guerra, bensì nel senso di ripristinare le condizioni materiali e culturali perché possano essere minate le cause scatenanti la violenza. In questo senso, occorre lavorare nel senso della ricomposizione sociale e, in prospettiva, per la soddisfazione dei più fondamentali bisogni sociali, che in Kosovo, ad esempio, si traducano soprattutto in termini di occupazione e prospettive di lavoro, di libertà di espressione e riconoscimento del ruolo positivo che la società civile può svolgere, e di libertà di movimento e apertura del Kosovo, specie se si pensa alla condizione dei Serbi del Kosovo centrale, dispersi nelle enclavi etniche diffuse sul territorio, o alla situazione dei Rom, i più poveri tra i poveri, ai margini della società. Si tratta, per di più, di un lavoro decisivo per garantire la dignità e per delineare una prospettiva: nel Kosovo oggi, la disoccupazione supera il 40%; tra i giovani sotto i 26 anni supera il 66% (due terzi della popolazione giovanile è disoccupata); tra le donne supera addirittura il 70% (quasi tre quarti delle donne in Kosovo è disoccupata). Negli ultimi mesi, tra ottobre 2014 e marzo 2015, circa 160 mila persone sono emigrate, letteralmente scappate, dal Kosovo, vale a dire circa l’8% della popolazione totale, soprattutto per cause legate al fallimento dei servizi pubblici e sociali e alla grave situazione di povertà e disoccupazione.

 

Il progetto per i “Corpi Civili di Pace in Kosovo”, sostenuto nella fase di avvio dal Comune di Napoli che, nel 2011, è stata la prima amministrazione locale a sostenere un progetto esplicitamente dedicato alla costruzione di Corpi Civili di Pace in zona di conflitto, ha avuto successivamente un suo sviluppo e, più recentemente, con il progetto denominato PULSAR (Project on Understanding and Linkages to Serbs and Albanians Reconcile), sostenuto dalla Tavola Valdese, ha ulteriormente consolidato e innovato l’impostazione e le acquisizioni di tale iniziativa. Il fatto che lo sviluppo e i risultati abbiano richiesto tanto lavoro e tanti anni non dovrebbe sorprendere, se si pone mente al fatto che si tratta di progetti che lavorano sulle lacerazioni e le divisioni prodotte dalla guerra, ma anche sulle percezioni e le relazioni tra le persone, e che richiede pertanto un lavoro lungo di preparazione, condivisione e fiducia. Non di meno, i risultati maggiori sono senza dubbio significativi: i giovani attivisti ed attiviste delle organizzazioni partner a Mitrovica, in Kosovo, sono capaci oggi di muoversi, nella loro città e nei suoi quartieri sensibili, come veri e propri CCP locali; l’indagine sulle percezioni ed i bisogni, da parte delle comunità di Mitrovica, in relazione alle conseguenze della guerra ed alla odierna situazione di post-conflitto, ha indicato un diffuso bisogno di pace e di sviluppo, ed è stata presentata anche all’ufficio locale delle Nazioni Unite; la ricerca-azione ha prodotto uno studio condiviso sul tema della memoria per la condivisione, redatto nelle quattro lingue (italiano, inglese, serbo ed albanese), la cui uscita è ormai imminente, con il titolo “La Pagina in Comune”. Un altro tassello e, soprattutto, un nuovo momento di elaborazione, intorno al nesso, così decisivo, di pace con giustizia.