Forse – sebbene il condizionale sia d’obbligo – siamo arrivati alla fine di quel “turbolento stallo” che, sin dalle elezioni politiche dello scorso 8 Giugno, ha pesantemente condizionato la formazione delle nuove istituzioni kosovare e l’evoluzione della dinamica politica della regione.

 

«Hashim Thaci ed Isa Mustafa hanno raggiunto un accordo di massima, per formare una coalizione tra PDK ed LDK, per portare avanti il processo di formazione delle istituzioni della [cosiddetta NdR] “Repubblica del Kosovo”». Con questa dichiarazione, rilasciata lo scorso 19 novembre, la presidentessa dell’auto-proclamatosi indipendente Kosovo, Atifete Jahijaga, sembra avere messo fine alla lunga crisi post-elettorale, segnata da continue diatribe e conflitti, che hanno attraversato tutte le forze politiche.

 

Può sembrare sorprendente il fatto che siano stati necessari cinque mesi di stallo per giungere ad un risultato, sul quale sempre più hanno spinto gli interventi delle cancellerie occidentali e che potrebbe perfino sembrare soluzione obbligata, in tempi di assuefazione alla logica di “Grande Coalizione”. In realtà, la situazione non è mai così semplice, in Kosovo, ed infatti, come diversi osservatori non hanno mancato di fare notare, questi ultimi cinque mesi sono stati segnati da una conflittualità politico-istituzionale fortissima, con i due maggiori partiti impegnati ad accusarsi di ogni malefatta.

 

Da una parte il PDK, il partito di uno degli ex capi del terrorismo separatista dell’UCK, Hashim Thaci, già premier uscente, scopertosi, il giorno dopo le elezioni politiche, praticamente come un’anatra zoppa, vincitore alle urne senza maggioranza dei seggi in Parlamento, in grado tuttavia di farne eleggere lo speaker, bloccando così la successiva formazione un nuovo, possibile, governo alternativo.

 

Dall’altra parte l’LDK, il partito che fu di Ibrahim Rugova ed oggi è di Isa Mustafa, erede della parte politica dell’indipendentismo kosovaro, che è stato, nel corso degli ultimi cinque mesi, uno dei principali animatori della polemica contro il PDK, attraversata da continue accuse di fallimento nella politica economica e di corruzione a carico di Thaci, e culminata con il tentativo, poi rivelatosi inconcludente, di formare un blocco delle opposizioni (con l’AAK di Ramush Haradinaj e il movimento politico “Vetevendosje” di Albin Kurti), per costituire una maggioranza alternativa.

 

In effetti, lo stallo così prodottosi non ha fatto altro che indebolire ancora di più la credibilità internazionale del Kosovo e delle sue istituzioni, in un momento peraltro di crisi verticale dell’auto-governo kosovaro, con la Presidente Jahijaga accusata di gravi violazioni della costituzione e la missione internazionale EULEX a sua volta accusata di corruzione ed inefficienza, e di precipitazione degli indicatori economici e sociali, che fanno della regione una delle aree di maggiore povertà, disoccupazione e sofferenza sociale dell’intera Europa.

 

Mentre resta sullo sfondo, anch’esso bloccato dallo stallo, il dialogo con Belgrado, l’implementazione dell’accordo di pacificazione del 19 Aprile 2013 e, in prospettiva, l’itinerario europeo sia della Serbia sia dell’auto-governo kosovaro. Sotto questo versante, se la vicenda ha messo in luce un aspetto, tra gli altri, è proprio il fatto che i destini delle due “capitali”, Belgrado e Pristina, sono sempre più, paradossalmente, intrecciati: difficile che senza la normalizzazione dei rapporti, il percorso europeo di entrambi, sebbene asimmetrico, prosegua; ancor più difficile che, senza l’implementazione dell’accordo e la formazione della Comunità dei Comuni Serbi del Kosovo, i Serbi, e i Serbi del Kosovo in particolare, possano vedere tutelati i propri diritti e i propri interessi.

 

È d’altro canto notevole che la dichiarazione della Jahjiaga sia stata rilasciata a margine di un incontro tra i due protagonisti, Thaci e Mustafa, nell’ufficio presidenziale, alla presenza dell’ambasciatore degli USA in Kosovo, Tracey Ann Jacobson. Forse, più dell’impasse politica, è la condizione perdurante di “stato fantoccio”, a dovere preoccupare di più il Kosovo e, in prospettiva, l’Europa tutta.