di Noam Sheizaf

La soluzione a due Stati non è una causa progressista come non lo è una soluzione a uno Stato singolo, sono solo mezzi possibili per raggiungere un fine. L’unico obiettivo possibile per la politica progressista in Israele/Palestina può essere la piena concessione di diritti umani, civili e politici per tutti coloro che vivono su questa terra.

Di tanto in tanto i commenti a questo blog [+972mag N.d.T.] mi attribuiscono la presa di una posizione che penso invece di essere stato molto attento a evitare, ma uno scrittore incompreso deve biasimare solo se stesso e non i suoi lettori. Tuttavia, c’è un punto specifico che ho sempre difficoltà ad affrontare, forse a causa del modo in cui esso si discosta dal modo in cui le persone tendono a inquadrare il dibattito politico, e non solo, in Israele.

L’argomento in questione è il cosiddetto accordo sullo status finale nel conflitto israelo-palestinese. Spesso ricevo commenti che presumono che io stia predicando un ritiro israeliano dalla Cisgiordania e l’evacuazione degli insediamenti. Altre osservazioni danno per scontato che io chieda a Israele di annettere la Cisgiordania e dare la cittadinanza a tutti i palestinesi. La verità è che io non sono un seguace di nessuna di queste idee o, se preferite, accetto tutte e due in determinate circostanze.

La mia posizione politica principale è l’opposizione all’occupazione. Per “occupazione” non intendo lo status giuridico del terreno amministrato da Israele. Mi riferisco all’esistenza di un regime che separa le due popolazioni su linee etniche e concede loro diritti diversi e a tutte le politiche che sono parte integrante di quel regime: il sistema giudiziario militare, gli omicidi extragiudiziali di persone che vivono sotto la sovranità israeliana, la mancanza di libertà di movimento, i limiti alla libertà di parola, e molte altre misure simili.

Sostengo pari diritti per tutte le persone che vivono in questa terra, tra il Mediterraneo e il fiume Giordano. Teoricamente questo può accadere come parte di una soluzione a due Stati, una soluzione a un solo Stato e in varie soluzioni ibride. Tutte queste soluzioni potrebbero lo stesso mantenere una situazione in cui non ci sono uguali diritti e gli ebrei continuano a governare sui palestinesi, ma con misure diverse, molto simile a quello che è successo a Gaza dopo il ritiro delle forze dell’IDF e dei 9.000 coloni nel 2005. Si può affermare di essere a favore della soluzione dei due Stati, o di sostenere l’applicazione del diritto civile israeliano (invece di un regime militare) in Cisgiordania, ma tali dichiarazioni da sole non garantiscono nulla.

Anche quando tali piani sullo status finale sono presentati nella loro forma ideale hanno tutti notevoli difetti. Il gioco secondo cui i progressisti propongono idee per risolvere il conflitto e la destra vi trova lacune è una causa persa. In realtà, l’intero dibattito sulle soluzioni potrebbe essere intellettualmente intrigante, ma la sua sola importanza è come contrappeso alla pretesa che il conflitto sia un certo tipo di stato di cose o una catastrofe naturale che non può essere risolta. Bisogna invece mettere le alternative sul tavolo, ma non dovrebbero essere trasformate in un culto.

Uno dei principali problemi in Israele è che la soluzione dei due Stati è stata trasformata da un mezzo per porre fine all’occupazione e ai suoi mali, a un obiettivo. Questo è uno sviluppo disastroso. Non c’è un “campo della pace” in Israele e nessuna grande forza politica in cerca di giustizia; c’è solo un “campo di due Stati”, che è qualcosa di completamente diverso. Se un campo della pace sta avendo problemi ad attuare la soluzione dei due Stati, cerca solo alternative che metteranno fine all’occupazione e diminuiranno i suoi mali. Ma quando un campo dei due Stati ha problemi di implementazione di una soluzione a due Stati, si smette di cercare qualsiasi tipo di soluzione e invece si diventa sostenitori dello status quo, con tutte le sue politiche inerenti, come la necessità di uccidere 2.000 persone a Gaza per mantenere lo stato attuale delle cose.

Questo è il motivo per cui i progressisti devono tornare ad opporsi all’occupazione, e hanno bisogno di farlo attivamente, non solo attraverso le parole circa un “processo diplomatico” o una soluzione a Stati o una pace e tutto il politichese firmato Shimon Peres.

Bisogna essere molto cauti a non scavare troppo in profondità nel dibattito sulle soluzioni. Più spesso questa conversazione è uno spreco di tempo e di capitale politico. Le soluzioni non sono il risultato di club del dibattito, ma di interessi politici in un dato momento. In altre parole, una volta che la società israeliana deciderà di porre fine all’occupazione a prescindere dalle circostanze politiche, i rapporti di potere e i diversi interessi determineranno la natura degli accordi sul terreno.

Quello sarà il momento in cui noi, israeliani, dovremo condurre un dialogo onesto circa il tipo di organizzazione che vorremo negoziare (i palestinesi dovrebbero fare lo stesso probabilmente). Tale dibattito non può esistere ora perché l’unica cosa su cui siamo tutti d’accordo è sul prolungamento dello status quo. Questo è ciò che accade ogni giorno nel sistema politico israeliano: Naftali Bennett, Avigdor Liberman, Yair Lapid e Tzipi Livni (o i labouristi di Yitzhak Herzog, in questo caso) sono parte della stessa coalizione, nonostante le loro opzioni contraddittorie, perché convivono con lo status quo. Questo è il comun denominatore che definisce l’intero sistema.

Una nota finale: anche quando l’accordo sullo status finale si presenterà, non sarà né definitivo né statico e dovremo continuare a lavorare in modo che le relazioni tra ebrei e palestinesi siano condotte all’interno di un sistema politico egualitario e responsabile e non attraverso lo sfruttamento o la forza militare. Non ci sono le finali in politica, non certo qui.

Traduzione dall’inglese di Irene Tuzi