In qualità di candidato ho ricevuto l’invito da parte di molte associazioni a firmare impegni a favore dei temi di cui si occupano. Ora mi trovo nella bizzarra posizione di prendere impegni per una proposta avanzata dalla Campagna Abiti Puliti di cui io stesso sono esponente.
La richiesta è di operare affinché sia garantito un salario vivibile a tutti i lavoratori che nel mondo producono per conto di imprese europee. Una lista per la verità molto lunga che coinvolge milioni di lavoratori asiatici, africani e dell’Europa dell’Est impiegati lungo tutte le filiere produttive basate sull’appalto e sulla subfornitura. Quelle delle calzature e dell’abbigliamento prima di tutto.
Ormai i grandi marchi che conosciamo non hanno quasi più retroterra produttivo. Per loro è più conveniente investire i profitti nella speculazione finanziaria, piuttosto che costruire fabbriche. La produzione la possono ottenere da stabilimenti altrui di proprietà sudcoreana, cinese, indiana, russa, aperti in paesi come Bangladesh, Romania, Moldavia, Tunisia, Albania. In paesi, cioè, dove la disoccupazione è così alta e la repressione sindacale così spinta, da costringere i lavoratori a lavorare per orari massacranti in cambio di salari che non bastano neanche per i bisogni fondamentali della propria famiglia. Semplicemente perché ogni tentativo di organizzazione sindacale è represso nel sangue e la legge, che rappresenta l’unico appiglio a cui aggrapparsi, fissa i salari minimi a livelli indecenti. In Bangladesh ad esempio il salario minimo legale corrisponde appena al 21% dei bisogni familiari di base. Ma se possibile in Europa dell’est va anche peggio. In Bulgaria e Ucraina siamo al 14%. In Georgia addirittura al 10%.
Questa situazione oltre ad essere un insulto alla dignità delle persone e alla civiltà umana, che sta tornando alla schiavitù, è anche un attentato ai diritti acquisiti dai lavoratori dei paesi industrializzati che si vedono costantemente ricattati dalle imprese: “O accettate retrocessioni salariali e forme di assunzione più precarie o ce ne andiamo” Per tutte queste ragioni la Campagna Abiti Puliti, aderente al coordinamento internazionale Clean Clothes Campaign, si batte per l’introduzione del principio del salario vivibile a livello mondiale, a partire dagli stabilimenti di calzature e abbigliamento inseriti nelle catene di subfornitura. Un principio per certi versi già espresso da alcune convenzioni internazionali in base al quale il salario deve essere sufficiente a coprire i bisogni fondamentali di una famiglia standard, in termini di cibo, alloggio, trasporti, cure e istruzione di base.
Fino ad oggi abbiamo costruito la globalizzazione selvaggia al servizio delle multinazionali. Ora dobbiamo costruire la globalizzazione dei diritti al servizio delle persone, cominciando a introdurre regole universali che le imprese debbono rispettare ovunque. Primo fra tutti quello del salario vivibile. Un obiettivo che si raggiunge non solo garantendo la piena libertà sindacale e di sciopero, ma anche innalzando i salari minimi legali a partire dall’Unione Europea.
In tal senso, l’impegno dei futuri parlamentari è importante. Ma il loro impegno potrà dare risultati solo se sarà sostenuto da una forte pressione popolare perché le imprese si organizzeranno in tutti i modi possibili per bloccare provvedimenti che possono corrodere i loro profitti. Per questo dobbiamo stare tutti all’erta cominciando a sostenere tutte quelle realtà di base che si battono per i diritti. Prima fra tutti la Campagna Abiti Puliti www.abitipuiliti.org.