da: http://barbaragarlaschelli.wordpress.com

Il 25 aprile si festeggia la liberazione dalla dittatura fascista. Ma una domanda sorge spontanea: siamo veramente in un sistema libero? Di certo abbiamo libertà d’espressione, abbiamo diritto di voto e libertà di associazione. Ma i dubbi sono sulla qualità della democrazia.

L’articolo 1 della Costituzione afferma che la sovranità appartiene al popolo. Come dire che il popolo definisce le scelte e le istituzioni politiche le trasformano in leggi. Ma a giudicare dai fatti si direbbe che oggi avviene il contrario. La casta decide e il popolo subisce. Non a caso nel vocabolario politico la parola “partecipazione” è sempre più sostituita dalla parola “consenso”. Il nuovo testo di riferimento non è più la Costituzione, ma il libro di Vance Packard sui persuasori occulti.

Che il progetto sia quello di trasformare il popolo in suddito lo si vede anche da altri segnali. L’attacco alla scuola, prima di tutto. Piero Calamandrei definiva la scuola “organo costituzionale” perché sapeva che dalla qualità della scuola dipende la qualità della democrazia. Anche Don Lorenzo Milani cominciò a fare scuola perché aveva capito che l’ignoranza è la madre di tutte le miserie. Stando accanto agli operai e ai contadini aveva capito che la miseria è figlia dell’inganno e del raggiro, possibile fra chi non capisce la realtà, ed è figlia del senso di impotenza tipico di chi non sa esprimersi. E nella Lettera a una professoressa si afferma che compito della scuola è formare cittadini sovrani. Dal che ne deriva che la scuola deve essere universale, ossia aperta a tutti, come prevede l’articolo 34 della Costituzione. Ne deriva anche che deve essere più attenta agli ultimi che ai primi. Deve dare di più a chi è più indietro, perché l’obiettivo non è selezionare, ma fornire a tutti gli strumenti di partecipazione. Oggi invece che il principio di riferimento è meritocrazia, la scuola è stata trasformata in un’aula di tribunale che annota chi sono i bravi da mandare avanti e i somari da respingere. Il risultato è che una gran massa di persone non è più in grado di capire, né di pensare. Perciò è totalmente vittima dei mezzi di informazione che rappresentano l’altro corno della costruzione o distruzione della democrazia.

Non si finirà mai di sottolineare il ruolo strategico dei mass-media: quotidiani, settimanali, mensili, ma soprattutto televisioni, che entrando nelle nostre case modellano a loro piacimento la nostra percezione della realtà. Questo sistema mercantilista pretende di considerare l’informazione una merce qualsiasi, addirittura un substrato da usare come veicolo della pubblicità. Ma l’informazione, al pari della scuola, è un pilastro portante della democrazia: la gente pensa in un modo o in un altro, quindi vota in un modo o in un altro, a seconda dell’idea che si fa della realtà, dei modelli culturali in cui si identifica, dei principi sociali in cui crede. Ed ecco l’importanza della proprietà dei mezzi di informazione, che in Italia desta grande preoccupazione.

In ambito televisivo, nonostante Berlusconi, Murdoch, Cairo, una parvenza di informazione pubblica è rimasta con la Rai. Ma nel campo della carta stampata, con l’eccezione di poche testate minoritarie, è tutta nelle mani di imprese o grandi famiglie: la Stampa alla Fiat, Repubblica a De Benedetti, Il Corriere della Sera a Mediobanca , L’Unità a Fago, La Nazione a Monti Riffeser, Il Messaggero a Caltagirone, Libero ad Angelini, Il Giornale a Berlusconi. In definitiva tutti i più grandi quotidiani italiani esprimono un’unica visione culturale: il punto di vista del capitale privato.

Vanno trovati dei modi per consentire a tutte le componenti politiche e popolari, ricche di idee ma povere di mezzi, di esprimere la propria voce, altrimenti avremo sempre una libertà di stampa formale, ma non sostanziale. Ne sono convinti anche numerose organizzazioni europee che hanno lanciato un’iniziativa di cittadinanza europea (http://www.mediainitiative.eu/it) per chiedere alla Commissione Europea provvedimenti che limitino la concentrazione della proprietà dei media e della pubblicità. Non un’iniziativa risolutiva, ma pur sempre un avvio.