Benetton ce l’ha messa tutta per accalappiare la simpatia dei consumatori mostrandosi un’anima sensibile alle tematiche sociali. La campagna pubblicitaria organizzata da Oliviero Toscani su equità di genere e di razza è sicuramente nella mente di tutti. Visti i risultati commerciali, Benetton e Toscani divennero due anime in un nocciolo, ma quando nel 2000 la campagna sui condannati a morte provocò la disdetta di un contratto di vendita che avrebbe aperto a Benetton la strada al mercato americano, allora l’incantesimo si ruppe e Toscani se ne andò sbattendo la porta.

Senza Toscani le campagne pubblicitarie di Benetton hanno perso smalto, ma l’azienda ci prova lo stesso a mostrarsi sensibile. Magari per altre strade. Ed ecco comparire la Fondazione Benetton che col suo impegno a favore della cultura prova a distrarre il grande pubblico dalle sue strategie produttive orientate a fare profitto sulla riduzione del costo del lavoro. Che poi significa appalto della produzione a chi fa il prezzo più basso. Non rimanendo nel Veneto, terra dei Benetton, ma spaziando nel mare aperto della globalizzazione: Tunisia, Turchia, Europa dell’Est e naturalmente Asia.

Nell’aprile 2013 si scoprì che i suoi capi di vestiario si producono anche in Bangladesh dove il lavoro minorile è endemico e gli adulti guadagnano fra il sì e il no 40 euro al mese, straordinari inclusi. Lo scoprirono i fotografi della France Press mentre si aggiravano fra le macerie del Rana Plaza, la fabbrica di Dacca crollata nell’aprile 2013 che procurò la morte a più di 1100 lavoratori e lavoratrici. Fra gli indumenti che affioravano dalle rovine ne comparvero anche di targati Benetton, che dopo un primo goffo tentativo di smentita, fu costretta ad ammettere il suo coinvolgimento con un fornitore che produceva nell’edificio.

In seguito, grazie all’incessante lavoro della Campagna Europea “Clean Clothes Campaign”, che in Italia è rappresentata dalla Campagna Abiti puliti, sono stati avviati due tavoli negoziali. Uno per la sicurezza degli edifici, l’altro per la costituzione di un fondo a favore delle vittime. Benetton non ha mai dimostrato grande trasporto né per un tavolo né per l’altro, ma sentendo il fiato sul collo dell’opinione pubblica alla fine ha dovuto parteciparvi. Gli esiti, però, sono stati deludenti. Il primo accordo, quello sulla sicurezza, alla fine lo ha firmato, ma una trasmissione televisiva andata in onda 17 marzo 2014 ha svelato che in Bangladesh il gruppo Benetton intrattiene rapporti produttivi con aziende non dichiarate nell’accordo. Come dire che viola l’impegno sulla trasparenza. Quanto all’altro accordo, non l’ha neanche firmato dimostrando generosità finché si tratta di spendere parole, ma totale indisponibilità se si tratta di spendere soldi in maniera controllata.

Da un capo all’altro del mondo si stanno mandando messaggi a Benetton per chiederle di smettere di nascondere le sue fabbriche agli ispettori incaricati e di versare 5 milioni di dollari al fondo per il risarcimento delle vittime del Rana Plaza. Facciamo sentire anche noi la nostra voce cliccando qui