Il buen vivir: un’alternativa allo sviluppo “estrattivista” – Foto: google.it

È stata definita “aggressione da sviluppo”: quella che continuano a subire i popoli indigeni, che spesso soffrono l’imposizione di progetti di sviluppo decisi da altri. Governi, multinazionali ed agenzie internazionali, infatti, spesso implementano megaprogetti per infrastrutture o sfruttamento delle risorse naturali in territori indigeni, contravvenendo alla Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni delle Nazioni Unite e alla convenzione n. 169 dell’ILO, che è pure legalmente vincolante per gli stati che l’hanno sottoscritta (solo 22 fino ad ora, grandi assenti Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, gli stessi paesi con presenza di popoli indigeni che inizialmente rifiutarono di ratificare anche la citata Dichiarazione ONU). Entrambi i documenti sanciscono la necessità del libero, previo ed informato consenso, ossia prevedono la consultazione ed il parere vincolante delle popolazioni indigene sui cui territori si andranno a realizzare interventi come ad esempio infrastrutture, sfruttamento minerario o delle risorse idriche.

Non a caso questo modello di sviluppo è stato definito “estrattivista” da vari osservatori, soprattutto latinoamericani: è infatti basato sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali nell’ottica di perseguire unicamente l’aumento del PIL. Stiglitz, premio nobel per l’economia, ha parlato a proposito di  “feticismo del PIL”, e da varie parti si è cominciato a proporre misure alternative. Misure che tengano conto non soltanto delle transazioni economiche, ma anche del benessere dei cittadini, della qualità della loro vita, della loro felicità. A partire dagli anni Novanta, ad esempio, venne introdotto l’Indice di Sviluppo Umano (HDI), che prende in considerazione anche indicatori riguardanti salute, aspettativa di vita ed educazione. Nel 2008 il governo francese istituì la “Commissione per la misurazione della performance economica e del progresso sociale”, coordinata da Fitoussi, Amartya Sen ed il già citato Stiglitz, con l’obiettivo di individuare i limiti del concetto di PIL e di trovare indicatori alternativi di ricchezza e benessere. La britannica New Economics Foundation ha lanciato l’Happy Planet Index, che considera anche la speranza di vita, il benessere soggettivo, e l’impronta ecologica. L’esperimento del Bhutan della “Felicità interna lorda”, misura di benessere che prende in considerazione anche la salvaguardia dell’ambiente e della cultura locale, ha poi richiamato studiosi da ogni parte del pianeta.

A differenza di queste concezioni di sviluppo, il buen vivir si colloca su di un piano differente: non vuole essere l’ennesimo progetto di sviluppo alternativo, ma al contrario si costituisce come vera e propria alternativa allo sviluppo, in un’ottica di decolonizzazione. Il buen vivir è infatti una proposta che, per dirla con lo studioso ecuadoriano Alberto Acosta, arriva dalla periferia del mondo e che si pone come una vera e propria alternativa alla concezione stessa di sviluppo, coniata dall’occidente e presa a misura di un mondo che si basa su antitesi come centro-periferia, sviluppato-sottosviluppato, superiore-inferiore, civilizzato-selvaggio.

Il buen vivir è una concezione indigena di benessere che deriva dalla cultura ancestrale di vari popoli originari latinoamericani. Ciononostante è un sapere aperto agli apporti provenienti da altre culture ed altre tradizioni, alla “modernità” e alla tecnologia. È un termine che sottintende una pluralità di significati e che assume denominazioni e caratteristiche diverse a seconda del popolo che lo crea e lo utilizza. Si chiama Sumak Kawsay in Quechua, Suma Qamaña in Aymara, Lekil Kuxlejal nella lingua Maya Tseltal: è un’idea plurale ed in perenne costruzione, di cui la traduzione spagnola non riesce a cogliere pienamente la ricchezza. I tratti comuni alle diverse concezioni sono soprattutto il fatto che il benessere è legato strettamente all’idea di comunità, e che esseri umani ed ambiente naturale interagiscono e sono collegati tra loro in maniera indissolubile. Il benessere è dunque inteso in maniera collettiva, e non ha alcuna connotazione individualista, non è basato sull’accumulazione di beni materiali e si fonda invece sulla reciprocità, sullo scambio, sulla solidarietà. Il buen vivir si pone fortemente contro l’estrattivismo, consapevole dei danni ambientali e sociali che lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali provoca e ha provocato durante 500 anni di antico e nuovo colonialismo che ha attinto a piene mani dalle “vene aperte dell’America Latina”.

In Bolivia ed Ecuador il concetto di buen vivir è stato riconosciuto come ispiratore delle politiche nazionali ed è stato incorporato nelle costituzioni dei due paesi, nel 2008 e 2009 rispettivamente. Nella costituzione ecuadoriana l’ambiente naturale, o Pacha Mama (madre terra), diviene per la prima volta nella storia soggetto di diritti (artt. 71-74), e come tale va rispettato e salvaguardato. Entrambi gli stati si dichiarano inoltre plurinazionali, si fondano cioè sulla convivenza di popoli diversi, sulla diversità culturale ed etnica. Certo le dichiarazioni di principio di questi due paesi non trovano sempre riscontro nelle politiche effettive, ed i presidenti Correa e Morales hanno attirato varie critiche a causa dell’incoerenza di certe loro politiche. Due episodi emblematici in questo senso sono stati la decisione di approvare lo sfruttamento petrolifero nel parco nazionale amazzonico Yasuní in Ecuador, e la repressione subita in Bolivia dalle comunità indigene che si opponevano alla costruzione di un’autostrada nel parco nazionale Tipnis.

Quella della costruzione del buen vivir resta una sfida aperta ed in perenne divenire, una sfida a cui sono chiamati non soltanto i popoli indigeni, ma anche i non-indigeni del sud e del nord del mondo.

Michela Giovannini