A Roma, l’11 ottobre 2013, muore a 100 anni Erich Priebke. E’ stato un militare nazifascista condannato all’ergastolo per aver partecipato alla pianificazione e alla realizzazione dell’eccidio alle Fosse Ardeatine.

 

In questa storia di Priebke, i funerali, la comunità ebraica, la contraddittoria idea del perdono cristiano, c’è quasi tutto ciò che vorremmo sapere sulla vendetta. Credo che basterebbe fare un’analisi sociologica di questo episodio per avanzare nella comprensione delle radici della vendetta.
E’ il paradigma dell’Occidente. Una violenza efferata e crudele, un gruppo umano con una forte identità, un Ego enorme, la memoria, la giustizia dello Stato, il risentimento che non si placa nemmeno con la morte dell’assassino, un desiderio di vendetta che ha come bersaglio il corpo, non importa se senza vita, come se in quel corpo risiedesse qualcosa che deve pagare e soprattutto pagare per sempre; un pagare con il dolore, perché solo il dolore può correggere. La credenza che solo il dolore possa far penetrare fino all’ultima cellula la coscienza di aver fallito nell’essere più crudele di Dio, perché nemmeno si può essere più misericordiosi, perché in ultima istanza solo così si potrà rinascere a nuova vita…in grazia di Dio!

 

Sono passati quasi 70 anni dall’eccidio delle Fosse Ardeatine e dalla fine del nazifascismo. Sono ben poche le persone che ancora hanno un ricordo concreto di quel pezzo di storia infame.

Che l’apparato mediatico del Sistema abbia amplificato la morte di Priebke per altri fini e indubbio, ma non c’è solo questo. Basti pensare che né l’Argentina né la città natale di Priebke ha accettato di accogliere la salma, che il Sindaco di Roma e Albano Laziale si sono rifiutati di far svolgere i funerali nei loro Comuni, che il Vicariato romano ha negato la possibilità di una cerimonia funebre pubblica, che il Prefetto ha vietato il trasporto della salma e le esequie in forma pubblica. Non si tratta solo di un tentativo di distrazione dell’opinione pubblica.

Priebke rappresenta il fallimento della giustizia dello Stato. Questo non perché la giustizia dello Stato sia stata clemente o eccessiva con il criminale, ma perché quella giustizia non ha riconciliato.

Si potrà dire che quel crimine era troppo grande per meritare il perdono e che il reo non si è nemmeno pentito ma questo, ancora una volta, dimostra che quella giustizia ha fallito. Si potrebbe dire anche che non è compito della giustizia ricomporre le coscienze devastate dal dolore ma allora perché pretendere che abbia una funzione rieducativa e soprattutto perché solo diretta a chi compie un reato. In questo senso la vendetta, altresì detta “giustizia privata” (la giustizia pubblica è quindi ancora vendetta), è più coerente. La vendetta (privata) mira ad una catarsi che almeno per un istante produce un profondo rilassamento dal sapore dolce della felicità.

 

Sappiamo tutti che grande illusione sia la vendetta e di quali sciagure si accompagna, forse per questo che in un lontanissimo passato, i vincitori si assicuravano che nessuno nel campo nemico rimanesse in vita. Nessuna compassione, nessuno  scrupolo. Donne, bambini, anziani, malati, tutti dovevano morire, perché la vendetta era come un virus. Agli eccidi e stragi seguivano rituali di purificazione e offerte alle divinità affinché nulla di quella potenza fosse lasciato libero di agire. La potenza doveva essere imbrigliata o al massimo addomesticata.

Con la sedentarizzazione e la concentrazione in poco spazio di migliaia di individui, nasce la necessità di regolare il vivere sociale ma fu soprattutto la carenza di forza lavoro che introdusse una nuova modalità di trattamento del nemico conquistato: la schiavitù. Il virus quindi venne lasciato agire ma restava la necessità di canalizzare la potenza.

Con il Codice di Ur Nammu e in seguito con il più celebre Codice di Hammurabi, scritto su una stele posta nella piazza centrale della città, abbiamo i primi esempi in questa direzione. I codici avevano il compito di definire il danno e la rispettiva punizione, tenendo conto dello status sociale delle parti in causa. Si tratta dei primi tentativi (quelli finora conosciuti) di regolamentare la vendetta o di evitare che questa si manifestasse. Bisognava che la legge fosse pubblica, accessibile almeno a chi sapeva leggere, e soprattutto che contenesse un carattere universale. La discrezionalità e l’indeterminatezza della punizione dovevano essere limitate il più possibile.

Ma se tutto ciò, rispetto al passato, comportò un notevole risparmio di vite umane, nello stesso tempo, cominciarono ad intravedersi i primi indizi di separazione tra il potere religioso e quello politico. Cominciò la fase del palazzo contro il tempio. Anche se quei primi codici furono considerati come diretta emanazione del divino e quindi sacri, quella dimensione religiosa che regolava i rapporti umani, non solo tra i componenti della stessa tribù ma anche con l’estraneo e il nemico, cominciava lentamente ad affievolirsi. Le modalità di compensazione del danno e dell’offesa non erano più una questione personale o tribale in relazione ad una potenza alter, la giustizia ora spettava al re, allo Stato.

Ma quella religiosità non scomparve, si mascherò semplicemente delle vesti della ragione, lasciando intatto il culto, la sacralità, il sacerdozio e l’illusione che il virus si potesse  annientare solo con la pena e la punizione. Nulla di più emozionale, nulla di più irrazionale che la giustizia dello Stato!

 

Se volessimo provare ad approfondire il perché la vendetta abbia quella forza attrattiva qualche suggerimento potremmo trovarlo nella cultura egizia.

Nell’antico Egitto, non propriamente refrattario alle influenze esterne e soprattutto da  quelle mesopotamiche, il cosmo così come tutto il creato e tutta la struttura sociale è una manifestazione diretta della divinità, dal caos all’ordine. L’ordine cosmico è diretta emanazione della divinità e la ma’at è il concetto che riassume meglio l’ordine supremo. L’applicazione della  ma’at è un obbligo morale, pena il ritorno al caos primordiale. La lotta contro il male è la lotta per ritornare all’Età dell’Oro persa con l’emergere del male.

In questo senso la vendetta che Horus, legittimo erede del regno di Osiride, usurpato da Seth è un’azione sorretta dalla ma’at che non solo ricompone l’ordine cosmico ma permette la trascendenza di Osiride. L’immortalità è così acquisita solo se si agisce con ma’at, la giustizia, la verità.

Sembrano quindi intravedersi almeno alcune caratteristiche della radice della vendetta, se intendiamo per radice il nucleo d’insogno e il sistema di credenze e aspirazioni ad esso connesso. Da un lato abbiamo la paura di non essere più in contatto con la divinità, con l’Essere, dall’altro il desiderio di raggiungere l’immortalità. La vendetta non è altro che un percorso iniziatico in cui l’altro è posto fuori dalla dimensione umana, per tradursi da semplice causa primaria dell’offesa, a capro espiatorio della crisi.

Solo attraverso la lotta, la sottomissione, l’annichilimento o la morte dell’altro che il sole risorge all’orizzonte. Un nuovo ciclo può ricominciare. La vendetta quindi è quel straordinario movimento in cui nel ripristinare l’ordine perduto tutti i soggetti implicati sono risorti a nuova vita.

 

La vendetta prima di manifestarsi come comportamento si manifesta come desiderio. Questo desiderio di vendetta è però avvertito come un sentimento legittimo e in questo senso morale. E’ morale vendicarsi perché si risponde con la vendetta ad un atto che è sempre giudicato come immorale o amorale. Quindi non si può prescindere dal parlare della vendetta senza parlare dell’ambito maggiore che lo include, cioè la morale dei tempi.

In una morale sono sempre in gioco i concetti di bene e male, buono e cattivo, buono e malvagio, bello e brutto, giusto e ingiusto, puro e impuro.

Dietro ogni morale c’è un’idea di essere umano e del significato che esso ha all’interno dell’esistenza.

 

Per Nietzsche la morale arcaica è la morale dei forti, dei nobili o meglio dei vincitori. Sono essi che definiscono i termini della morale. Lo fanno a partire dall’immagine che hanno di sé stessi. Questi creatori della morale sono sostanzialmente i guerrieri, alla testa di una società divisa in caste. Lo dimostrano, sempre per Nietzsche, la ricerca etimologica di buono, che sembra derivare dal latino bonus e a sua volta dal più antico duonus (guerriero). In questo senso il concetto di moralmente buono si riferisce solo alle qualità del guerriero. “Buono” perciò è il coraggio, la forza, il desiderio di dominare. “Cattivo” invece deriverebbe da captivo, appunto ciò che più differisce dal guerriero, cioè il prigioniero, il servo, il sottomesso.

Questa concezione morale guerriera definisce l’essere umano come l’erede dei suoi padri ormai innalzati a divinità in cui non concepisce l’idea di trascendenza, necessita piuttosto del concetto d’immortalità. L’immortalità è il grande proposito che perseguono gli eroi guerrieri. Solo nell’immortalità il guerriero si pone al pari dei suoi padri e ripaga definitivamente il debito del sangue. La morte diviene quindi l’ultimo ostacolo per compiere pienamente con la vita intesa come volontà di potenza o come Essere pienamente.

Per questi “buoni”, nulla è più morale, nulla può dare direzione alla vita se non l’incarnare il mito dell’eroe ma questa morale del vincitore non conosce il senso di colpa. Fintanto che si è vincitori, la colpa non s’insinua nella coscienza umana. Così uccidere, sterminare, razziare, violentare in guerra non era immorale perché in ultimo si era perseguito un dettato morale.

La colpa invece appare nel vinto, nel sopravvissuto fatto prigioniero, nel cattivo appunto. Quando nelle società comincia la schiavitù, quando cioè si passa dalla fase in cui si sterminano i nemici, dove nessuno deve sopravvivere, alla fase in cui si sceglie di fare dei prigionieri e successivamente dei sudditi fino alla nascita delle caste, vediamo sorgere un sentimento nuovo nella coscienza umana, quello del rimorso, del “ressentiment” per dirlo come Nietzsche. Questo sentimento è proprio dei gruppi umani sottomessi, resi prigionieri, quello dei “cattivi”. E’ un sentimento che sorge come reazione a quello di frustrazione.

La “colpa” del “cattivo” è quella di aver osato e di aver fallito.

La colpa quindi diviene strumento di “addomesticamento”, di “ammansimento” del “cattivo” e se in un primo momento la punizione mirava a generare il senso di colpa, lentamente la colpa diviene motivo della punizione.

Quest’opera d’insinuazione della colpa, secondo Nietzsche è da addebitarsi alla casta sacerdotale. La casta sacerdotale è quella che concepisce i concetti di “puro” ed “impuro”, all’inizio come semplici regole igienico sanitarie per estenderli poi a comportamenti sempre più astratti e interiorizzati. Puro ed impuro quindi saranno messi in relazione con l’idea di colpa. Con il tempo questi concetti definiranno un comportamento morale che si allontanerà sempre più dalla morale arcaica, arrivando a prendere il sopravvento sulla classe guerriera fino a quel momento padrona assoluta del tutto sociale.

La classe sacerdotale, sempre per Nietzsche, produce una vera e propria manipolazione, innalzando il desiderio di vendetta proprio del ressentiment, a Senso, a motore dell’esistenza umana.

 

Queste brevi considerazioni, non certamente esaustive e sicuramente passibili di critica, hanno la pretesa di gettare una piccola luce sul tragico fallimento della cultura occidentale nel superamento della violenza, della vendetta e in ultimo del perdono legato a doppio filo con il concetto della colpa.

Se oggi, purtroppo ancora timidamente, si parla di nonviolenza, lo si deve ad esempi che hanno a che fare con altre tradizioni culturali. Ghandi era stato certamente influenzato dalla figura di Tolstoy, però trova però le radici della nonviolenza nella tradizione induista dell’Upanishad e nella Bhagavadgita. Martin Luther King, pur se pastore protestante, è immerso nella cultura afroamericana portatrice del concetto di ubuntu.

 

In un suo discorso del 2007, a Punta de Vacas, località argentina ai piedi dell’Aconcagua, Silo affronta ancora una volta il tema della violenza e vendetta in relazione alla riconciliazione. In quel discorso Silo conduce un’opera mirabile di differenziazione semantica tra perdono e riconciliazione. “Né oblio, né perdono!” furono le sue parole al fine di ripulire il concetto da ogni malinteso. Nessuna falsificazione della memoria attraverso l’oblio, nessun perdono se questo significa porsi al di sotto o al di sopra di qualcuno o qualcosa.

 

Si potrebbe lasciare con le parole di Silo dal “Tetto dell’Occidente”, la conclusione di questo breve scritto sulla vendetta e la riconciliazione:

 

“Se arriviamo a comprendere che il nostro nemico è un essere che ha vissuto anch’egli con speranze e fallimenti, un essere nel quale ci sono stati bei momenti di pienezza e momenti di frustrazione e risentimento, avremo messo una sguardo umanizzatore sulla pelle della mostruosità. Questo cammino verso la riconciliazione non sorge spontaneamente, cosi’ come non sorge spontaneamente il cammino verso la non violenza. Perché entrambi richiedono una grande comprensione e la formazione di una ripugnanza fisica della violenza. Non saremo noi a giudicare gli errori, nostri o altrui, a questo fine ci saranno i risarcimenti umani e la giustizia umana e sarà la statura dei tempi quella che eserciterà il suo dominio, perché io non voglio giudicarmi né giudicare… voglio comprendere in profondità per pulire la mia mente da ogni risentimento. Riconciliare non è dimenticare né perdonare, è riconoscere tutto quello che è accaduto e proporsi di uscire dal circolo vizioso del risentimento. È scorrere lo sguardo per riconoscere gli errori in se’ e negli altri. Riconciliarsi internamente è proporsi di non passare per lo stesso cammino due volte, ma disporsi a riparare doppiamente i danni prodotti. Però è chiaro che a coloro che ci hanno offeso non possiamo chiedere di riparare doppiamente i danni che ci hanno provocato. Tuttavia, è un buon compito far vedere loro la catena di danni che continuano a trascinarsi nella loro vita. Facendo ciò ci riconciliamo con chi abbiamo sentito prima come un nemico, anche se ciò non fa si’ che l’altro si riconcili con noi, ma questo fa già parte del destino delle sue azioni, sulle quali noi non possiamo decidere.”

 

Il cammino dell’Occidente verso il superamento della violenza e della vendetta è stato tortuoso è impervio ma una nuova speranza, un nuovo paesaggio, emerge all’orizzonte.