Rispetto agli unlitmi avvenimenti relativi al processo a Bradley Manning Alessandro Marescotti ha affermato che fosse in atto un tentativo di far abiurare il militare statunitense.

A questa affermazione ha risposto con una diversa argomentazione Patrick Boylan, la riportiamo qui di seguito:

 
 Sai, Alessandro, nella tradizione anglosassone, è segno di forza, non di debolezza, di chiedere scusa per il fastidio e per i danni che un nostro comportamento possa aver causato ad altri, anche se reputiamo che era giusto compiere quel gesto e anche se possiamo avere nessuna simpatia e molta giusta rabbia verso quegli “altri” — nel caso di Manning, i generali che si sono sentiti traditi, i conservatori furiosi che la Macchina Militare venga intaccata, i diplomatici del Dipartimento di Stato che hanno fatto una figura di merda, e, soprattutto, i poteri forti che vogliono far eseguire i loro crimini da una cittadinanza supina.
 
 
 Nella tradizione anglosassone, dicevo, si chiede sinceramente scusa anche ai nemici ai quali le proprie (giuste) azioni causano sofferenze, nonostante il fatto che quei nemici non dovrebbero soffrire e se soffrono è solo per colpa loro (e delle loro menti storte).
 
 E le scuse, ripeto, non sminuiscono la convinzione di aver agito per il bene. Poi, possiamo anche — alla luce di una riflessione più ponderata — decidere che sarebbe stato meglio agire in modo più oculato e forse anche, in un primo tempo, cercando di ottenere giustizia all’interno del sistema, prima di destabilizzarlo. Ed è ciò che Manning ha detto. Il tutto fermo restando che, nelle circostanze in cui Manning si trovava, con le poche risorse che aveva, l’unica azione realmente possibile per lui era di agire impulsivamente e di divulgare tutto subito.
 
 
 Per me Manning è innocente proprio perché non aveva altre possibilità reali, la Macchina Militare non ha previsto mezzi di ricorso interni praticabile per una persona nelle condizioni di Manning. Quindi per me egli dovrebbe essere assolto e, anzi, ringraziato per il suo coraggio.
 
 Semmai bisognerebbe aprire procedimenti disciplinari contro tutti quei dipendenti del governo americano, militari e non militari, i quali, venendo a conoscenza di misfatti, NON facciano ricorsi interni e, trovando le vie bloccate, NON divulgano i misfatti all’opinione pubblica. Perché il loro silenzio costituisce complicità e, sul piano legale, costituisce omissione di un atto dovuto.
 
 Fin quando non si punisce chi sta zitto zitto facendo finta di niente, trovo oltremodo ingiusto perseguitare chi ha avuto il coraggio di rompere gli schemi e divulgare tutto all’opinione pubblica. Fin quando non si mette in pratica mezzi idonei per fare denunce all’interno di un’amministrazione e, anzi, si lascia intatto il meccanismo di complicità reciproca e di omertà, è innocente (anzi, è eroico) chiunque faccia denunce pubbliche. In galera semmai chi crea e perpetua il sistema di omertà.
 
 In conclusione, le scuse di Manning non mi turbano affatto. Serviranno per alleggerire la sua sentenza, ma indipendentemente da questi calcoli puramente pragmatici, sono, nella cultura anglosassone, dovute. E non sono un’abiura. Sono convinto che Manning crede ancora in quello che ha fatto — seppure ora, col senno di poi, capisce che andava fatto diversamente se le circostanze l’avessero consentito. Cioè, pur chiedendo scuse per i danni collaterali causati, crede ancora che ha fatto la cosa giusta in quanto era l’unica cosa che poteva in coscienza fare.