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Quando leggi gli articoli di Francesca Borri senti che ti sta spiazzando, che ti porta su un terreno di ricerca, di dubbio metodico, più in là delle tue credenze e delle tue convinzioni inamovibili. Ti porta nello spazio della realtà umana che Francesca cerca di descrivere nel suo lavoro di giornalista sul campo. E su “campi” piuttosto minati come la Palestina e la Siria.

Francesca, ho frugato su Internet, ma non ho trovato traccia di una tua “biografia ufficiale”.

Perché la mia, in realtà, è una biografia di biografie. Ho trent’anni, una laurea a Firenze in Politica Europea, un master in Human Rights al Sant’Anna di Pisa e una seconda laurea in Filosofia del Diritto, sempre a Firenze. Ho pubblicato due libri, uno sul Kosovo, uno su Israele e Palestina, ma più di ogni università, più di ogni libro, mi hanno segnato alcuni incontri. Alcuni uomini straordinari. Senza i quali avrei avuto molte strade intorno, ma nessuna dentro.

Chi ti ha segnato di più?

Più di tutti, Antonio Cassese e Danilo Zolo. Con il primo ho studiato diritto internazionale e la pace attraverso il rispetto dei diritti, con il secondo filosofia del diritto e la pace attraverso il rispetto delle differenze. Mi hanno insegnato a essere sempre un po’ del parere dei miei avversari. E poi sono stata portavoce sia di Nichi Vendola sia di Mustafa Barghouti, in Palestina. Due figure che sembrano non avere niente in comune. Ma la loro bellezza è la fragilità. Sono uomini inquieti, feriti dalla vita e però con un’inossidabile fiducia negli altri – una straordinaria capacità di convertire il dolore in dolcezza, invece che in rancore. E adesso, poi: Stanley Greene.

Il fotografo con cui lavori in Siria. Uno dei maggiori al mondo.

Mi ha cambiato profondamente. Non ho imparato solo la tecnica. Con Stanley ho imparato che se stai lì per mestiere, è inutile. Devi stare lì per passione. La storia che racconti, le persone che hai davanti devono interessarti davvero. Toccarti. E appunto anche cambiarti. Stai chiedendo qualcosa alle persone di cui scrivi, alle persone che fotografi: devi essere pronto a dare qualcosa di te. Altrimenti non è giornalismo, ma una forma sofisticata di turismo.

La realtà si racconta da un punto di vista. Raccontaci il tuo.

La curiosità. Nient’altro che un’infinita curiosità. Sono onnivoro di sentimenti, diceva Neruda, di esseri, di libri. Di avvenimenti e di battaglie. Mi mangerei tutta la terra, diceva. Mi berrei tutto il mare.

“Ogni notizia in guerra è propaganda”, recita un vecchio adagio. Cosa si può fare per non fare propaganda?

Dubitare. Sempre. E poi ascoltare, domandare, leggere il più possibile: diversificare le fonti. Ma soprattutto: girare. Girare instancabili, andare, andare, andare. Perché dal vivo, niente appare mai in bianco e nero. Nessuno è illeso, nessuno è immune. In guerra il torto e la ragione, i vinti e i vincitori si invertono di ruolo in continuazione.

Abbiamo avuto, finora, un’informazione sulla Siria abbastanza a senso unico. Con eccezioni di alto livello, ma con una sproporzione enorme. Sei d’accordo?

Più che un’informazione a senso unico, penso che sulla Siria abbiamo avuto un’informazione frammentata e incompleta. Su entrambi i fronti. Perché poi il problema vero è questo, è importante ricordarlo: il problema è che Assad ci nega il visto. E quindi siamo costretti a scegliere: coprire la Siria del regime o coprire la Siria dei ribelli – ribelli che nel tempo, tra l’altro, hanno anche loro trasformato i giornalisti in un business. Su entrambi i fronti, ormai, sembra un viaggio organizzato: siamo tenuti accuratamente a distanza dalle notizie scomode.

E non c’è soluzione?

L’unica sarebbe fare rete. Ma tra noi giornalisti domina la competizione. Una competizione feroce, a scapito di tutto, a volte persino della sicurezza. E invece dovremmo lasciare perdere il narcisismo, la corsa al Pulitzer e accettare che la Siria non può che essere un racconto collettivo: ognuno un tassello. Alla fine non siamo qui per un premio, ma perché i lettori ci capiscano qualcosa. E possibilmente, perché tutto questo non continui per altri 90.000 morti. Essere diventati un business, per i ribelli, è la prova del nostro fallimento.

Cioè?

La Siria è finita in prima pagina grazie a un fotografo italiano, Alessio Romenzi. Erano i giorni dell’assedio di Homs. E Alessio, che era entrato clandestino attraverso le condutture dell’acqua, è stato ospitato, aiutato, protetto per oltre un mese come un figlio, un fratello. Oggi ad Aleppo tutto è gestito da un media center che ti costa 350 dollari al giorno: una cifra che taglia fuori moltissimi giornalisti. Per le famiglie di Homs, Alessio era il solo megafono per raggiungere il mondo. Era prezioso, era indispensabile. Oggi nessuno crede più che i giornalisti e attraverso i giornalisti la comunità internazionale, abbiano il potere, o la volontà, di cambiare le cose. Ci siamo o non ci siamo, è uguale.

Il giornalista di guerra ha una sua identità consolidata e stereotipata. Come interpreti questo ruolo, tu che oltre a essere giovane, sei donna e pacifista?

In realtà non mi definisco una giornalista di guerra. Sono solo una che racconta le storie di cui è curiosa. E infatti il reportage a cui sono più legata è quello da cui ho iniziato, l’Ilva di Taranto. Perché poi le guerre non sono solo quelle con i missili – quelle sono solo le guerre più facili da vedere. Diciamo che in quanto ragazza e nonviolenta, ho il privilegio di sentirmi del tutto fuori luogo, qui. Perché come sosteneva Terzani, la cosa più terribile della guerra è che ci si abitua.

Come è possibile sparire per due mesi e poi telefonare a casa? Che succede quando sei lì?

Succede che non puoi fidarti di nessuno. Che sei completamente solo. No, non mi meraviglia.

Quali sono le tue prossime mete?

Nell’immediato, Gaza. Ma al solito, ho mille idee e progetti, non mi sarebbero sufficienti mille vite. Anche se prima, in realtà, ho un vecchio desiderio: raccontare la malattia. Il cancro. Perché il pericolo di questo mestiere è ritrovarsi solo con mete geografiche. E invece il viaggio vero, alla fine, sono le persone.

Tutti moriremo, è la nostra condizione comune: però in zone di guerra forse ti viene in mente più spesso. Com’è la tua relazione personale con questo tema?

Non è che non ho paura. Anche più che paura. Però non so, al fondo penso solo che è giusto essere qui.

L’ultima volta che hai rischiato davvero.

Aleppo. Sono scivolata davanti a un cecchino.

E a cosa hai pensato, mentre eri lì per terra?

All’uomo che amo. A quanto avrei voluto amarlo ancora. Poi, per fortuna, ho pensato anche a rialzarmi e correre via.

 

Borri

Le foto di quest’intervista sono di Alessio Romenzi; grazie a Tom O’Neill della Columbia Review of Journalism per avercele “prestate”.