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Nelle ultime elezioni politiche e amministrative si è registrato un notevole aumento dell’astensionismo, cioè quel fenomeno che vede sempre più persone rinunciare ad andare a votare e che i politologi insistono nell’affermare come fisiologico per le democrazie avanzate.
In passato, in Europa, si guardava all’Italia come a quel paese in cui ancora resistevano alte percentuali di partecipazione al voto ma recentemente, se si prendono in considerazione anche le schede bianche e nulle, si è scesi al di sotto del 50% degli aventi diritto. Un risultato mai visto che ha costretto gli opinion-makers a cimentarsi in cinque impegnativi minuti di riflessione. Una riflessione che, nel vedere i risultati, dev’essere sembrata interminabile e soprattutto caratterizzata dal vuoto pneumatico.
Naturalmente questi conoscitori dell’animo umano, a giustificazione di tale fenomeno, hanno chiamato in causa l’attuale crisi economica.
Quando si pensa al denaro come motore di ogni azione umana, tirare in ballo la crisi economica deve essere sembrata la cosa più ovvia del mondo.
Qualcun’altro invece, convinto di conoscere meglio dei suoi colleghi, la storia e le particolarità umane ha fatto notare che in altre occasioni elettorali non fu l’assenza del denaro ma la sua presenza a far aumentare l’astensionismo.
Una sorta d’indifferenza alle questioni politiche data dal ricco conto in banca.
Questi grandi pensatori sostengono, dopo una più approfondita riflessione, che ciò che ha scoraggiato gli elettori nelle ultime elezioni amministrative sia stato il fatto, ormai risaputo, che i Sindaci e consiglieri comunali, senza soldi, non servono a niente.
Perché mai votare se poi non possono spendere?
Sempre loro sostengono che nelle prossime elezioni politiche la cosa sarà ben diversa.
Cosa li conforti in questo poi è un mistero se si considera che solo 4 mesi fa il popolo degli astensionisti, proprio in occasione delle elezioni di Camera e Senato, era per così dire, il primo partito. Votarono poco più del 75%, la percentuale più bassa dal dopoguerra.
Prendendo in esame i dati delle percentuali di votanti, non solo in Italia ma nel resto del mondo, tutto lascerebbe pensare che questa tendenza all’astensionismo sia destinata ad aumentare piuttosto che regredire. Per questo analizzare questo fenomeno che non ha riferimenti nella storia umana, vista la relativa recente introduzione del suffragio universale, può essere utile per comprendere la sensibilità dell’epoca e non solo i capricci di un particolare elettorato in una particolare tornata elettorale.
Con la scomparsa dell’Unione Sovietica negli anni ’90, in molti hanno esultato non solo per il crollo di un muro ma anche per un presunto e definitivo crollo delle ideologie. Da quel momento in poi, ogni proposta politica che solo larvatamente nascondeva un approccio ideologico veniva definitivamente bollato come antistorico, astratto e soprattutto foriero di grandi disastri.
Occorre tanta malafede per nascondere in maniera truffaldina il carattere ideologico del pragmatismo. La manipolazione fu tale che chi osò svelare il contrabbando semantico fu punito con l’ostracismo e l’emarginazione.
Finalmente il pragmatismo vinse la sua battaglia. Ogni tipo di utopia venne accantonata nel museo del novecento e un certo grado di euforia pervase tutti gli ambienti intellettuali legati allo star system politico-economico. Si diede il via ad una epoca in cui era possibile agire senza quella fastidiosa cattiva coscienza che aveva caratterizzato il secolo scorso. Un’epoca in cui non c’era più bisogno di giustificare la direzione delle proposte e delle scelte, in cui sarebbe bastato presentare qualsiasi scelta con un certo grado d’urgenza per zittire ogni dissenso. L’imperativo divenne la concretezza.
Chiaramente si nascose e si continua a nascondere che il concetto di concretezza ha valore solo all’interno degli interessi del Grande Capitale.
Con il pragmatismo si istituì quello che Mario Rodriguez Cobos (Silo) chiamò “il Regno del Secondario”, cioè l’imposizione di un campo limitato di argomenti, dall’importanza marginale, in cui era possibile perfino la più accesa contesa dialettica. Non era possibile uscire da quei confini e chi si addentrava fuori da quei protettorati veniva subito visto come sospetto d’ideologismo e invitato prontamente a parlare di sport, astrologia e ricette di cucina. E fu così che in molti, pur di non risultare dei disadattati, si piegarono a quel gioco al ribasso in cui dopotutto potevano ancora, anche se limitatamente, discutere nelle aule parlamentari, dell’arredamento e del tipo di musica per la filodiffusione negli uffici pubblici. Di pari passo ogni protesta più o meno violenta che raggiungesse un risultato, anche se restava all’interno di quel campo di scelte, si fregiò con il ridondante appellativo di rivoluzione.
Sul piano della comunicazione di massa si ebbero dei grandi risultati, il cosiddetto “politichese” fu messo in soffitta. L’epoca dei complicatissimi discorsi ideologici era finita, e grazie a questa importante propensione a circoscrivere e isolare i contenuti, si consegnava finalmente una soluzione ad ogni problema. Col tempo le campagne d’informazione cominciarono a dare i loro risultati. Una parte consistente della popolazione cominciò ad uniformarsi agli slogan degli opinion-makers anche se, per sostenere l’esercizio della democrazia formale, fu sempre necessario creare compagini contrapposte, evidenziate però da sottilissime e pretestuose differenze. Per un po’ sembrava tutto procedere per il meglio fino a quando, malgrado l’avanzatissima politica dell’alternanza, alcuni problemi rimanevano sempre irrisolti.
Dopo alcuni decenni (anche se l’opera manipolativa sull’informazione ha una più lunga storia), arriviamo ai nostri giorni in cui gli slogan sono assimilati dalla popolazione tanto che si è innescato un meccanismo di retro-alimentazione tra il rappresentante politico e il suo elettore che rimane difficile distinguerli l’uno dall’altro. In altre parole si potrebbe dire che il violento processo di manipolazione ha finito per cosificare non solo l’elettore ma anche l’eletto.

Finalmente parlano la stessa lingua!

Non tutto però sembra perduto nel nero abisso del non senso. In effetti qualcosa di nuovo si scorge ed è proprio in quella percentuale di astensionismo che qualcuno ha voluto chiamare astensionismo apatico, che nasconderebbe la rappresentazione del cittadino astenuto come insensibile alle vicissitudini politico-sociali e quindi immeritevole di considerazione. Altri invece parlano di astensionismo di protesta, proponendo una versione del cittadino astenuto come di colui che si lascia andare a forme di autolesionismo da bonzo vietnamita.
Ma quanto romanticismo novecentesco!
In questo caso chi si astiene è ideologico e l’ideologia si sa, è dannosa e fanatica.
Probabilmente le cose stanno diversamente.
Oggi chi si astiene non ha affatto perso sensibilità alla politica, alla vita sociale, non è un individualista menefreghista, tanto meno un caso da Trattamento Sanitario Obbligatorio, o almeno non è da questo comportamento che si può dedurre tale analisi.
Oggi probabilmente, chi si astiene, ha riconosciuto il fallimento dell’ideologia del pragmatismo. Si sente manipolato e nello stesso tempo incapace, data la frammentazione del sapere, di produrre un pensiero più strutturale. Il cittadino che si astiene coglie che non c’è soluzione di continuità tra se e colui che dovrebbe rappresentarlo. Spesso si sente migliore di chi oggi è al vertice della congiuntura epocale ma rifiuta di scambiarsi di posto. In sintesi riconosce nelle parole del cosiddetto politico le sue stesse frasi, i suoi stessi pensieri, i suoi stessi limiti e si chiede perché mai dovrebbe votare chi, come lui, non è in grado di risolvere i suoi stessi problemi.
Se si volesse spiegarlo con un approccio utilitaristico si potrebbe dire: “Se parla come me, se sente come me, se pensa come me, a che mi serve?”
Se tutto ciò fosse vero oggi potremmo trovarci di fronte al preludio di altre forme di trasformazione sociale che non passano attraverso la politica. Cosa ci porteranno queste nuove forme al momento è difficile dirlo. Ci aspettano nuove dittature o avanzamenti progressisti? Molto dipenderà dal tipo d’immagini che lanceremo al futuro per giustificare il nostro presente.