La mia storia non é diversa da quelle di tanti giovani palestinesi nati e cresciuti sotto occupazione israeliana.

Fui arrestato per la prima volta all’età di 17 anni, quando scontai due anni di prigione.
Quando avevo appena vent’anni, fui arrestato nuovamente a Ramallah, era la seconda Intifada e Israele invadeva numerose città della Cisgiordania con l’Operazione Scudo di Difesa. Fui condannato a trent’anni di carcere per aver partecipato ad attività ostili all’occupazione.

Nella mia famiglia non sono il primo ad aver fatto esperienza della detenzione israeliana. Mio nonno era membro dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e fu condannato a morte dalle autorità mandatarie britanniche. Per reprimere i palestinesi, Israele adotta ancora quei regolamenti. Lui riuscì a fuggire prima della prevista data della sua esecuzione.
Nel 1994 mio fratello Fadi aveva 16 anni quando fu assassinato dai militari israeliani durante una manifestazione in Cisgiordania per il massacro che un israeliano avevano commesso nella moschea Al-Ibrahimi, a Hebron.

Mio fratello Medhat ha trascorso 19 anni in prigione, e anche Firas, Shadi e Ra’fàt sono stati detenuti da Israele per periodi tra i cinque e gli undici anni.
Shirin, mia sorella, è stata arrestata a più riprese e ha trascorso un anno in prigione.
L’abitazione di mio fratello è stata abbattuta, mentre è stata interrotta l’erogazione dell’acqua e  dell’elettricità in quella di mia madre.

Come il resto del mio popolo e dei miei concittadini gerosolimitani, anche la mia famiglia è sottoposta a minacce, persecuzioni e attacchi costanti, ma tutti difendono con costanza i diritti dei prigionieri palestinesi. Dopo quasi 10 anni spesi in prigione, fui rilasciato nell’ambito dell’accordo di scambio mediato dall’Egitto con la liberazione del soldato israeliano Gil’ad Shalit.

Il 7 luglio 2012 sono stato arrestato ancora nei pressi di Hazma, un’area vicina alla municipalità di Gerusalemme e sono stato accusato di aver violato le condizioni per il mio rilascio (non avrei dovuto lasciare la città). Identica sorte è spettata ad altri prigionieri.

Il primo agosto ho avviato lo sciopero della fame in protesta alla mia illegale detenzione da parte delle autorità israeliane che quell’accordo non rispettano. La mia salute sta peggiorando, ma sono determinato a continuare lo sciopero fino alla vittoria, o al martirio.
Questa è l’ultima pietra che lancio in direzione dei miei carcerieri impegnati a umiliare la nostra gente.

Questa forza la prendo da tutti gli uomini liberi nel mondo, tutti coloro che lottano per porre fine all’occupazione israeliana e il mio cuore indebolito batte ancora e sopporta grazie a solidarietà e sostegno.
La mia voce, sebbene flebile, è tuttavia più forte di quella dei miei carcerieri e più alta dei muri. Non combatto per la mia libertà personale, ma lo faccio come i miei compagni Ayman, Tariq e Ja’afar che stanno scioperando per tutti i palestinesi contro l’occupazione israeliana e le sue prigioni.

Quello che sto attraversando non è nulla in confronto ai sacrifici dei palestinesi di Gaza, assassinati e feriti a migliaia sotto gli attacchi e il brutale assedio di Israele; assedio disumano che non ha precedenti.

Tuttavia, è necessario raccogliere ulteriore sostegno. Israele non potrà continuare a opprimerci se non avrà più il sostegno che i governi occidentali gli accordano, i britannici in particolare, sui quali ricade la responsabilità storica per la tragedia del mio popolo. E’ necessario imporre sanzioni su Israele fino a che non porrà fine alla sua occupazione, non riconoscerà ai palestinesi i loro diritti, e non rilascerà tutti i prigionieri politici.

Se il mio cuore dovesse arrestarsi, non temete perché vivrò  anche dopo la mia morte, e vivrò perché Gerusalemme scorre nelle mie vene.

Se dovessi morire, sarà una vittoria, e lo sarà anche se dovessi essere liberato, perché in entrambi i casi vorrà dire che ho rifiutato di arrendermi all’occupazione israeliana, alla sua tirannia e alla sua arroganza”.

Fonte: Ahrar.ps