Immaginiamo un sera d’inverno, un gelo che entra nelle ossa, il piazzale deserto davanti alla Stazione Centrale di Milano. E’ quasi mezzanotte, siamo lì da qualche ora impegnati anche noi Medici Volontari Italiani in una ricerca che si sta facendo sui senzatetto a Milano. Le interviste sono lunghissime, durano circa 1 ora e 30m; gli intervistati sono molto pazienti, noi un po’ meno. Un piccolo gruppo si è formato comunque attorno al camper, l’ ambulatorio mobile di MVI che tutte le sere sosta nel piazzale e dove i senza tetto possono ricevere visite mediche e farmaci. Il piccolo gruppo diventa via via sempre più numeroso; ai malati si aggiungono persone senza problemi di salute, ma che non sanno dove andare a dormire. Di solito la stazione è l’ultimo rifugio, ma stasera è piena di camionette della polizia. Sono stranieri di tutte le età. Molti nord africani, ma anche rumeni, nigeriani, e un belga simpatico e girovago che chiede un sacco a pelo perché preferisce dormire all’aperto. “Sono un po’ razzista, dice sorridendo, non amo avere persone intorno”.

Comunque noi non abbiamo né sacchi a pelo, né la possibilità di fornire posti letto. Dobbiamo inviarli al centro di Aiuto del Comune, anche se sappiamo che anche lì non hanno più posti a disposizione. E’ solo un modo per dare una risposta e non sentirci soffocare dall’angoscia e dalla rabbia per essere così impotenti.

Ma c’è un ragazzo che non se ne vuole andare, non si accontenta di sentirsi dire ” Vai domani al centro di aiuto”. “Ci sono già stato oggi”, mi risponde, ” Mi hanno detto che non hanno posti, mi hanno dato un altro indirizzo”. Guardo i fogli che ha in mano e vedo che lo hanno inviato allo sportello del Comune per i rifugiati. “Allora domani vai lì, gli dico, non hanno il letto ma ti mettono in lista di attesa”. So che lo sto prendendo in giro, la lista d’attesa può durare molti mesi, ammesso che si liberino dei posti nei Centri per i rifugiati. Mi rendo conto che non si può continuare così.

Dai documenti vedo che ha 25 anni e viene dalla Tunisia. Ha l’aria talmente disperata che gli dico con aria medico-materna: “Perché non torni a casa, lo vedi che l’Italia non ha niente da offrirti?” “Non posso”, risponde, “Sono fuggito dalla Tunisia nel gennaio 2011, quando abbiamo cominciato a ribellarci, se torno mi mettono in prigione”. Se sia vero o no ho smesso di chiedermelo da un bel pezzo, tanto non cambia la realtà che ho davanti.

Infine la storia che non voglio ascoltare mi viene raccontata lo stesso: si chiama Aziz, è sbarcato a Lampedusa a gennaio 2011, ha fatto domanda di asilo in Italia, che gli è stato concesso, e subito dopo è andato in Germania, dove aveva degli amici ed ha trovato casa e lavoro. Sapeva che la legge non glielo permetteva; il trattato di Dublino, firmato 10 anni fa dagli stati membri dell’ Unione Europea dice che ogni stato si deve tenere i suoi migranti, vietato cambiare paese. Ma Aziz lo ha fatto. La Germania ha impiegato circa 2 anni per accorgersi che lui era sbarcato in Italia e rimandarlo quindi al primo paese in cui aveva lasciato le sue impronte.

I guai veri sono iniziati alla frontiera , appena entrato in Italia. Con la sollecitudine che ci caratterizza, a volte, è stato subito traferito nel Centro di identificazione ed espulsione di Via Corelli a Milano (Cie)*. Aziz non ha fatto del male a nessuno, ma questa è la legge.

Al Cie, che è in tutto e per tutto una prigione, è rimasto circa un mese. Era stato rilasciato quella mattina stessa e l’indomani aveva l’appuntamento in Questura per il permesso di soggiorno, quindi: dal Cie lo avevano buttato fuori, non aveva un posto dove andare a dormire, dalla stazione i poliziotti lo avevano allontanato. Anche la mia fervida mente era nell’impasse.

“Non potrei ritornare al Cie?” chiede lui. Non ho mai sentito in vita mia una richiesta del genere, ma lui è talmente spaventato dalla situazione che preferisce la prigione piuttosto che trascorrere le notti al freddo e al gelo.

Non lo so, l’unica cosa da fare è chiederlo direttamente ai poliziotti, anche se ho delle perplessità. “No”, dicono i poliziotti che se ne stanno al calduccio del loro pulman. “Al Cie una volta usciti non si può rientrare, è assurdo” . Ci danno però un buon consiglio, quello di rivolgerci alla Stazione di Polizia della Stazione Centrale e chiedere a loro di lasciare il ragazzo all’interno della stazione, su una di quelle sedie di ferro che ormai costituiscono l’unico arredamento “non” in mano alle multinazionali del consumo che si sono suddivise lo spazio di tutte le stazioni ferroviarie d’Italia. Eccoci quindi a risalire le scale di una stazione ormai quasi deserta, restare in attesa di essere ascoltati da un poliziotto, (anche di notte c’è la fila). Finalmente arriva l’OK: Aziz potrà restare fino all’alba seduto su una sedia, al riparo dalle intemperie. Ormai la mezzanotte è passata da un po’, i ragazzi delle interviste sono ancora al lavoro con gli intervistati, Aziz ha l’aria più tranquilla. Ed io, sentendomi un po’come Rossella O’Hara in Via col vento , mentre prendo l’ultimo metrò della notte che mi porta a casa , mi dico che domani è un altro giorno.

*I centri di identificazione ed espulsione (CIE), sono strutture previste dalla legge (L.40/1998), istituite per trattenere gli stranieri sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera, nel caso in cui tale provvedimento non possa essere immediatamente attuato. Prima non era mai stata prevista la detenzione di individui se non a seguito della violazione di norme penali. A tutt’oggi i soggetti prigionieri nei CIE non sono considerati detenuti, e di norma vengono eufemisticamente definiti ospiti della struttura. Questa anomalia è una violazione di norme umanitarie.( Wilkipedia) 

Rosa Maria Vitale

Medici Volontari Italiani – Onlus

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