Mentre al quartier generale dell’Onu si cerca un accordo per una regolamentazione sul commercio di armamenti che soddisfi standard internazionali, Pechino incrementa il budget della Difesa e rincorre gli Usa, alle prese con una pesante riduzione delle spese militari.

Nel luglio 2012, dopo quattro settimane di negoziati, la Conferenza Onu per l’approvazione di un Trattato sul commercio delle armi riuscì solo ad impegnare 90 stati membri che firmarono congiuntamente un documento per una risoluzione del problema nel minor tempo possibile. In quell’occasione Cina, Russia e Stati Uniti rinviarono uno storico accordo, che avrebbe decretato un’attenta regolamentazione del commercio delle armi.

Anche se si ritenta in questi giorni nella sede newyorkese delle Nazioni Unite, a nulla sembra che possano servire gli appelli dei 18 premi Nobel per la Pace che hanno scritto al presidente americano Barack Obama perché sostenesse l’adozione di un trattato più forte.

Gli equilibri geostrategici cambiano rapidamente e, all’alba del 2013, il mondo dovrà tornare a fare i conti con una corsa al riarmo senza precedenti, in perfetto stile Guerra Fredda.

“Una farfalla batte le ali a Pechino…”

La Cina balza al quinto posto nella classifica dei paesi esportatori di armi, scavalcando la Gran Bretagna dall’ottava posizione precedentemente occupata da Pechino.

In termini percentuali, la partecipazione cinese all’export mondiale di armi è ancora lontana dalla doppia cifra. Solamente il 5% contro il 30% degli Usa, il 26% della Russia, il 7% della Germania e il 6% della Francia. Tuttavia quello che preoccupa i competitors che la precedono nella classifica stilata dal Sipri (Stockholm International Peace Research InstituteIstituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma) è l’incredibile aumento delle esportazioni di armamenti registrato in Cina dal 2008 al 2012: 162% in più rispetto allo scorso quinquennio.

Con la previsione di ulteriori incrementi di produzione e di vendita. Infatti, per il 2013, il governo cinese ha intenzione di aumentare le spese militari del 10,7%, raggiungendo i 720 miliardi di yuan, dopo il +11,6% già segnato nel 2012.

Il fatto che “la Cina si stia affermando come un importante fornitore di armi a un crescente numero di paesi importanti”, come ha commentato Paul Holtom, direttore del programma sui trasferimenti di armi del Sipri, crea un ‘effetto farfalla’ dalle conseguenze notevoli, ma imprevedibili.

Pechino infatti vende al Pakistan il 55% delle armi prodotte, e di riflesso l’India si colloca al primo posto assorbendo il 12% dell’import mondiale di armi.

“…e a New York arriva la pioggia invece del sole”

La doccia gelata per New York arriva da un rapporto dell’Istituto per gli studi strategici di Londra (IISS) sulla situazione militare globale.

Secondo lo studio, entro il 2023-2025, la Cina potrà competere con gli Stati Uniti in materia di armamenti nel caso – come accaduto nell’ultimo decennio – il suo budget militare continuasse a crescere a un ritmo che tocca il 15% ogni anno.

Già raggiunto l’obiettivo di rappresentare la seconda potenza economica del mondo, Pechino potrebbe diventare la prima anche in campo militare.

Un primo risultato in questo senso è stato già centrato. Secondo l’ISS, infatti, i paesi asiatici hanno superato nell’acquisto di armi quelli europei della Nato che, rispetto al 2006, hanno ridotto le spese militari dell’11%.

Un trattato in grado di regolare il commercio degli armamenti sarebbe dunque una vera minaccia per la supremazia statunitense.

Per correre ai ripari e rimandare ulteriormente un accordo internazionale, gli Usa hanno praticamente già affossato i negoziati con la scusa del Secondo emendamento.

Il segretario di Stato americano, John Kerry aveva dichiarato nei giorni scorsi che un documento che “attenti al Secondo emendamento della Costituzione americana, quello che riconosce a ogni cittadino il diritto di possedere un’arma” non sarà mai accettato dagli Usa, così come verrà respinto qualsiasi tentativo di includere nel trattato clausole riguardanti le munizioni. Secondo il Dipartimento di Stato,  queste “sono fondamentalmente diverse dalle armi e la loro inclusione nel trattato comporterebbe una serie di difficoltà pratiche”.

Gli Usa – ha proseguito Kerry – “sosterranno un testo che regoli unicamente la questione delle armi convenzionali, ma non uno che imponga nuove restrizioni sul mercato americano per quelle da fuoco, o sugli esportatori americani”.

Andrea Camboni

http://www.osservatorioiraq.it