“Perché io, il signore, sono il tuo dio, un dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione”
-ESODO 20:5, Edizione C.E.I.-

I recenti fatti di cronaca hanno riaperto una delle profonde ferite del diritto penale: il (grossissimo) problema-sociale e, soprattutto, giuridico-delle madri detenute. Lo ius puniendi, infatti, nel caso in esame, oltreché “tendere alla rieducazione del condannato1”, deve essere mitigato dai diritti-doveri posti, dalla costituzione, a salvaguardia della maternità e dell’infanzia2: come è facile comprendere, ad oggi, un vero equilibrio tra l’esecuzione della pena e la tutela delle madri carcerate e dei loro figli non è stato raggiunto.

Tale problematica non è da sottovalutare perché i dati ufficiali, attualmente, fotografano la presenza di ben 52 detenute madri-con 62 figli al seguito-all’interno degli istituti penitenziari italiani3 e questi numeri, dal 93 ad oggi, sono tra i più elevati. Occorre ricordare, inoltre, che la famiglia è una “comunità di persone, che preesiste, di fatto, allo stato e all’ordinamento ed è deputata a svolgere un ruolo primario anche in ambito sociale4”: approntare una tutela a favore delle detenute madri e dei loro figli è, pertanto, imprescindibile.

La normativa di riferimento, al fine di fornire tale tutela, prevede espressamente che “alle madri è consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido5”. Il designato punto di equilibrio tra l’esigenza di punire dello stato ed il rapporto madre-figlio pare, tuttavia, un po’ (troppo?) paradossale: se è vero, ed è vero, che il limite dei tre anni è sorto a seguito della presa d’atto della nocività del carcere, allora, non si comprende come si possa consentire ad un bambino di vivere i primi tre anni della propria vita in tale contesto. “Che si debba punire la colpa dei padri nei figli?”: verrebbe da dire. Fuori dalle (facilissime) provocazioni viene da dire che, come in altri casi, il carcere persegue finalità altre rispetto alla rieducazione e, nel caso de quo, prevarica i diritti costituzionali della maternità.

Le riflessioni sul problema delle madri detenute devono, tuttavia, essere operate tenendo conto dei due differenti piani della “carcerazione”: la fase cautelare va, infatti, distinta nettamente da quella esecutiva della pena. Per quanto attiene all’esecuzione della pena si deve, anzitutto, sottolineare che quest’ultima è differita “se deve avere luogo nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni uno6”: un bambino di sei mesi, quindi, potrà trovarsi ristretto insieme alla madre solo se quest’ultima è sottoposta a custodia cautelare in carcere. Se, invece, “una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita nei confronti di madre di prole di età inferiore a tre anni7” la pena può, e non deve, essere differita: già si ravvisa, in tali parole, l’esistenza di una forte discrezionalità in capo al magistrato di turno. Per quanto concerne le misure alternative alla detenzione si potrebbe, al di là della detenzione domiciliare “standard” ex art. 47ter8, citare la detenzione domiciliare speciale ex art. 47quinquies per la quale “quando non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 47ter le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione9”: un’altra norma che, al di là delle facili astrazioni, concede un’eccessiva discrezionalità alla magistratura e, per tale ragione, può divenire di rara applicazione.

Il paradosso della disciplina delle detenute madri si evince, forse ancor di più, allorquando si osservino i vincoli ai quali queste ultime sono sottoposte in funzione cautelare, piuttosto che esecutiva della pena. A tal proposito l’art. 275 comma IV c.p.p. stabilisce che “quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente […] non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”. In tali ipotesi, a seguito dell’art. 1 comma III della l. 62 del 2011, “il giudice può disporre la custodia presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri, ove le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza lo consentano10”. Si può dire, in estrema sintesi, che, di default, le madri di prole di età non superiore ai sei anni non possono essere sottoposte alla custodia cautelare in carcere: così è, tuttavia, fino a che non sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Qualora sussistano, viceversa, il giudice può, sempre se le eccezionali esigenze cautelari lo consentano, sostituire la custodia cautelare in carcere con la custodia presso le “ICAM”: sperimentali e sporadici luoghi di detenzione che, seppure non ne possiedano il nome, rimangono tali. Non occorre sottolineare che nelle misure cautelari, forse ancor più che nell’esecuzione della pena, il magistrato sembra divenire depositario di un’eccessiva discrezionalità avendo riguardo alla tematica de quo: si ragiona, infatti, sempre e comunque in un’ottica cautelare saltando, a piè pari, qualsiasi disquisizione sui diritti ed i doveri costituzionalmente garantiti della maternità.

L’osservazione complessiva della disciplina delle detenute madri-nella fase esecutiva della pena ed in quella cautelare-sembra dimostrare che l’enorme problematica ad essa associata è, in realtà, figlia di una più ampia e complessa immagine del diritto penale: si potrebbe dire, con una metafora, che non è altro se non una stella (cadente?) dell’universo carcerocentrico.

Si può dire, infatti, che il carcere venga dipinto, sempre e comunque, come la pena maggiormente idonea a fronteggiare la pericolosità sociale e, conseguentemente, più adeguata a tutelare le esigenze di sicurezza dei consociati: questa concezione si riflette, indubbiamente, nella tematica delle madri detenute. La normativa sul tema, infatti, può “reggere costituzionalmente” fintantoché ci si trovi innanzi a detenute madri che abbiano commesso (o siano indagate per) reati di modesta entità: che dire, tuttavia, quando le detenute siano ritenute socialmente pericolose? Nella tragica realtà dei fatti non è, infatti, peregrino sostenere che la pericolosità sociale si desume, per lo più, dalla gravità del reato oggetto del giudizio: ed è proprio quando quest’ultimo è grave che il sistema carcerocentrico e la disciplina delle madri detenute entrano in cortocircuito.

Nel momento in cui si ritiene sussistente la pericolosità sociale, infatti, le madri, quasi sicuramente si vedranno catapultate in carcere insieme ai propri figli di età pari od inferiore a tre anni. Questa riflessione, ahimè, vale in entrambi i binari della carcerazione: l’unica differenza tra i due è che nella fase dell’esecuzione la madre ed il figlio entreranno in carcere solo se quest’ultimo è di età pari o maggiore ad un anno. Successivamente alla condanna, infatti, molto difficilmente un giudice deciderà di differire l’esecuzione della pena nei confronti di una madre con prole di età inferiore a tre anni: non dissimilmente sarà assai arduo ottenere una misura alternativa al carcere come la detenzione domiciliare speciale. Non dissimilmente, per quanto attiene alla fase cautelare, quale giudice, in presenza di pericolosità sociale, eviterà alla madre la custodia in carcere? In buona sintesi, in tal caso, soltanto la madre di infante di età inferiore ad anni uno si eviterà-momentaneamente-il carcere, poiché in tal caso l’esecuzione della pena è differita ex art. 146 c.p.: non è differibile, tuttavia, la custodia cautelare in carcere.

La pericolosità sociale e la gravità del reato oggetto di giudizio sono, in buona sintesi, le scosse in grado di destabilizzare l’intero sistema del diritto penale carcerocentrico: se, infatti, il carcere si considera come la pena “regina” al fine di arginare i “mali della società” allora, ogniqualvolta ci si trovi innanzi ad uno di questi ultimi il primo dovrà, sempre e comunque, essere chiamato in causa, in sfregio ad ogni ulteriore diritto-dovere costituzionalmente garantito. È per tale ragione che occorre “superare il sistema sanzionatorio di tipo carcerocentrico, ingessato nella bipolarità detentivo-non detentivo. La detenzione non deve, cioè, essere concepita quale unica alternativa alla non punizione e la variegatura delle possibili sanzioni […] avrebbe il duplice vantaggio, se attuata con attenzione ed intelligenza, non soltanto di alleviare la situazione carceraria, ma soprattutto di elidere l’effetto criminogeno della struttura carceraria11”.

Spesso le grandi innovazioni del diritto penale sono sorte a seguito della loro sperimentazione nel terreno del diritto minorile: perché non smettere di vedere il carcere come la migliore delle pene partendo proprio da qui? Il carcere, infatti, pare godere di un’aura di sacralità idonea a gettarlo, all’interno dell’universo giuridico, in posizione baricentrica: un po’ come se fosse quella terra immaginata dal sistema tolemaico. “Eppur si move”: verrebbe, allora, da dire. Il carcere, infatti, “come accade per tutti i modelli consueti di azione sociale […] si

] circondato di un senso di inevitabilità che è contemporaneamente legittimazione dello status quo12”: è, tuttavia, nei singoli riflessi di tale visione del diritto penale, tra i quali si annovera il problema delle madri detenute, che si coglie la fallacia della stessa. Fino a che il carcere sarà visto, o si farà finta di vederlo, come la pena più idonea a garantire la sicurezza dei consociati, molto probabilmente, continuerà ad esistere il problema delle madri detenute: i recenti fatti di cronaca, infatti, hanno unicamente creato l’effetto zoom su uno dei rami dell’albero carcerocentrico che, come è facile capire, ha radici ben più nascoste e profonde.

Restiamo in attesa di una rivoluzione copernicana in ambito penale che sappia dimostrare che il carcere non è al centro dell’universo punitivo poiché è soltanto una delle pene possibili (e, molto probabilmente, quella meno efficace) e provi che, casomai, tale posizione è occupata dall’uomo e dalla sua rieducazione. Occorre, infatti, “prendere coscienza del fatto che il diritto penale si basa su una sorta di incanto, su una sorta di illusione [poiché esiste una] trascendenza che fa credere a una differenza tra vendetta, sacrificio e sistema punitivo [e che] consente di ingannare anche la violenza e rompere il rischio di una ritorsione infinita13”: se, tuttavia, la pena cardine dell’intero sistema-il carcere-non raggiunge i risultati che promette, allora, l’illusione cessa di esistere e rimane unicamente la tragica realtà conosciuta da tutti.

Dott. Daniel Monni

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1 Art. 27 Costituzione

2 Artt. 30,31 Costituzione

4 MASTROPASQUA G., La legge 21 aprile 2011 n. 62 sulla tutela delle relazioni tra figli minori e genitori detenuti o internati: analisi e prospettive, in Diritto Famiglia, fascicolo IV, 2011, pagina 1853

5 Art. 11, l- 26 luglio 1975, n. 354

6 Art. 146 c.p.

7 Art. 147 c.p.

8 Cfr. l. 354 del 1975

9 Ibidem

10 Art. 285bis c.p.p.

11 CIANI G. Intervento del procuratore generale della corte suprema di cassazione, Roma, 24 gennaio 2014

12 GARLAND D., Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale, Milano, 1999, pagina 41

13 BARTOLI R., Nella colonia di Franz Kafka: Dann ist das gericht zu ende, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, fascicolo III, Milano, 2014, pagine 1598 e seguenti

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Daniel Monni nasce il 7 settembre 1991 a Fivizzano e si laurea, in data 20 aprile 2017, in Giurisprudenza presso l’Università di Pisa con una tesi in diritto penitenziario dal titolo: “L’istintualità del diritto penale: dalla vendetta al carcere (post fata resurgam?)”. Consegue con tale tesi la votazione di 110 su 110 con Lode e riceve l’encomio della commissione. Studioso ed appassionato di diritto penale e, in particolare, della fase esecutiva della pena si iscrive, nel giugno 2018, alla Camera Penale di Genova. Attualmente è praticante abilitato al patrocinio presso uno Studio legale spezzino. Scrive articoli sul carcere e partecipa a convegni sul tema.