Danilo Dolci, sociologo, poeta, educatore e attivista della nonviolenza italiano, è conosciuto anche oltre frontiera e in questo mondo che avanza speditamente lungo le strade della tecnologia e della digitalizzazione, le sue intuizioni sulla maieutica quale metodo pedagogico, contributo alla prevenzione della distruttività umana, diventano un lascito che accresce di anno in anno l’interesse. In special modo oggi con l’avvento di Internet, dell’intelligenza artificiale, con il pericolo di una grande platea sempre più disinformata, acquiescente e controllabile, la diversità che Dolci sottolinea tra il “trasmettere” e il “comunicare” si rivela sostanza e non forma. In parole povere Danilo Dolci è stato un maestro che ha cercato un mezzo perché si imparasse a pensare con la propria testa; in un mondo dove il potere autoritario omologa, questo significa andare controcorrente.
Tanti conoscono inoltre le battaglie antimafia, anche rischiose per l’incolumità personale, che lui e i suoi collaboratori hanno fatto sul piano pratico. La figlia Libera Dolci nel libro corale e autobiografico edito da “Libreria Dante e Descartes”, dal titolo “Vincenzina, mi chiamo Vincenzina” risponde a una domanda che fino ad ora era stata inevasa: il ruolo di moglie accanto a un uomo dalla personalità così carismatica poteva essere sostenuto da qualsiasi donna? Sappiamo che Vincenzina Mangano è stata la compagna con la quale Danilo ha vissuto più a lungo, che lo ha affiancato nelle stagioni più intensa della vita, che gli ha dato cinque figli. Come e perché si sono incontrati questi due caratteri? Come si sono scelti? Com’era la loro vita privata? Domande che, al di là dell’immagine pubblica di Dolci, scendono nel privato e approfondiscono la figura di Vincenzina Mangano, finora rimasta in ombra, completando anche quella del marito negli aspetti più intimi e non per questo meno importanti.
Sposa a quattordici anni, madre di cinque figli, prima ancora dei cinque di Danilo, vedova a trenta. Vincenzina veniva dal luogo e dalle esperienze che Danilo aveva scelto per dare senso al suo passaggio. Alto, occhi azzurri e gravi, guardandoti serio Danilo sapeva incutere soggezione, ma non poteva non rivelare quella tenerezza, quella capacità di capire ed empatizzare, che ne ha fatto un grande uomo. Dal libro di Libera Dolci questo sentimento traspare come sintesi dell’amore nella coppia: da una parte colui che ha aiutato Vincenzina a crescere, dall’altra lei che gli ha dato tutta sé stessa: in una parola reciproca abnegazione. Bisognava essere personalità particolari? Si. Bisognava dedicarsi l’uno all’altro, cosa che non sempre accade. Per essere sicura di aver scelto il sostantivo giusto specifico che abnegazione vuol dire: “La disposizione spirituale di chi rinuncia a far prevalere istinti, desideri, interessi personali, per motivi superiori“.
Il libro di Libera Dolci è importante perché illustra la vita dei protagonisti, a partire da sua madre, nel quotidiano, senza quel tanto di agiografia e retorica che purtroppo è il limite di molte biografie. Persone vive, normali, inconsapevoli di quello che oggi viene chiamato “grande” che, non senza sofferenza, hanno cercato il modo di avere rapporti umani migliori, non sempre riuscendoci, ma sempre aspirandovi con onestà. “Vincenzina, mi chiamo Vincenzina” – parole della madre dell’autrice per sottolineare, a chi la chiamava signora, la sua vicinanza affettiva – è lo specchio di una donna che ha vissuto in maniera straordinaria nel dolore e nella gioia, la storia di una famiglia che ha cercato di valorizzare la vita.
Libera Dolci
Vincenzina, mi chiamo Vincenzina
Libreria Dante e Descartes
Euro 18










