Proponiamo una versione ridotta del contributo sulla Legge di Bilancio 2026-2028 che i due economisti hanno pubblicato sul sito del ‘Collettivo Effimera’, a cui si rinvia per la lettura integrale, cliccando sul link a pié di pagina della nostra selezione[accì]

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Con l’approvazione della Legge di Bilancio 2026-2028, il governo italiano ha scelto di non scegliere, adeguandosi ai dettami e ai vincoli imposti dal nuovo Patto di Stabilità e Crescita europeo.

Si conferma così la linea di questo governo impavido: una linea fondata su grandi proclami ideologici (tutto va bene!) e promesse di riforme strutturali a cui non segue una capacità decisionale degna di tal nome. D’altra parte, il non fare è il sistema migliore per non sbagliare e mantenere un riconoscimento elettorale, soprattutto in presenza di una stampa compiacente e di una opposizione inconcludente.

Nel campo macroeconomico si rinuncia così di esercitare il potere discrezionale della politica economica. È una legge che non governa l’economia, ma la registra; non apre prospettive, ma le rinvia. Nel più classico stile neoliberista, che vede ogni intervento pubblico di indirizzo una bestemmia contro il mercato.

Dopo il Documento di economia e finanza e la Nota di aggiornamento, il trittico della programmazione pubblica si chiude con un bilancio che, al netto del Piano nazionale di ripresa e resilienza, equivale a una manovra “a saldo zero”. Le risorse aggiuntive effettive sono limitate: solo 900 milioni nel 2026. Si tratta di numeri che, nella sostanza, descrivono un bilancio statico, coerente con il nuovo quadro europeo che impone la riduzione graduale del debito e un avanzo primario crescente, ma del tutto privo di un progetto di sviluppo autonomo.

  1. Il ritorno del Patto e la politica dell’obbedienza

Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita, negoziato nel 2024, rappresenta il compromesso tra la richiesta dei Paesi “frugali” di tornare al rigore e il tentativo, soprattutto da parte della Francia e Germania, di introdurre margini di flessibilità per gli investimenti pubblici e la transizione verde e sottotraccia la difesa. Ma nella pratica, il suo impianto resta quello di sempre: l’equilibrio dei conti prevale su ogni altra priorità economica o sociale.

L’Italia, nel redigere la manovra, avrebbe potuto interpretare in modo più elastico le regole, valorizzando lo spazio di manovra consentito dal saldo strutturale e dall’avanzo primario. Non lo ha fatto. Il governo ha scelto di applicare il Patto in modo pedissequo, trasformando un vincolo tecnico in un vincolo politico.

  1. La manovra “neutra”: crescita zero, politica zero

Il quadro macroeconomico allegato alla legge di bilancio conferma questa impressione. Le differenze tra gli scenari tendenziali e quelli programmatici sono minime: appena uno o due decimali di PIL in più nel 2027 e nel 2028. I consumi privati restano fermi, i consumi pubblici crescono solo nella misura consentita dal nuovo Patto, e se gli investimenti mostrano un modesto recupero, ciò è dovuto ai soldi del PNRR.

Senza il PNRR, che contribuisce alla crescita per circa 1,7 punti percentuali nel 2026, il tasso di espansione del PIL sarebbe negativo di quasi due punti.

  1. Le risorse: 18 miliardi di aggiustamenti, non di sviluppo

Nel complesso, la Legge di Bilancio mobilita circa 18 miliardi di euro, distribuiti tra minori entrate fiscali, tagli di spesa e risorse ricavate dalla minor spesa per PNRR. Ma la struttura interna della manovra rivela molto più della cifra complessiva.

I ministeri subiscono una riduzione di circa 8,5 miliardi nel triennio, mentre le minori entrate fiscali ammontano a 26,5 miliardi. La copertura arriva da una combinazione di contributi straordinari e maggiori entrate dal settore finanziario e assicurativo, oltre che dal rinvio di spese già previste nel PNRR.

  1. Fisco categoriale e regressività sociale

La parte fiscale della manovra rappresenta uno dei punti più problematici. L’impianto tributario italiano, già profondamente segmentato, si frammenta ulteriormente con il proliferare di regimi speciali e aliquote agevolate.

Il taglio dell’IRPEF dal 35% al 33% per i redditi tra 28.000 e 50.000 euro è finanziato interamente con i tagli ai ministeri. È un’operazione neutra sul piano macro, ma regressiva sul piano distributivo: riduce il peso fiscale senza correggere la disuguaglianza. Per di più, nonostante i proclami, ha un effetto minimo sulle tasche dei 13,6 milioni contribuenti che ne potrebbero beneficiare, la maggior parte dei quali si colloca sotto i 40.000 euro annui. Il risparmio fiscale infatti varia da ben 40 euro! all’anno (per chi ha 30.000 euro) e a ben 240 euro all’anno (per chi arriva a 40.000 euro l’anno), sino ad un massimo di 440 euro per chi dichiara redditi da 40.000 a 200.000 euro l’anno.

  1. Politiche sociali e welfare: risorse insufficienti

Sul fronte sociale, la manovra appare debole e frammentata. Gli stanziamenti aggiuntivi per la sanità ammontano a poco più di 2,4 miliardi nel 2026 e 2,65 miliardi dal 2027: cifre che non bastano a colmare il divario accumulato negli ultimi anni. Il Servizio Sanitario Nazionale continua a operare sottorganico e con strutture obsolete, mentre la spesa sanitaria pubblica in rapporto al PIL resta tra le più basse d’Europa. Per di più la quota di spesa sanitaria pubblica che finanzia la spesa privata è in costante aumento ed è oggi arrivata a superare il 25% (esattamente 25,75%, secondo il rapporto 2025 Gimbe).

L’aumento simbolico delle pensioni minime (12 euro!) e il temporaneo blocco dell’età pensionabile per i lavori usuranti non compensano il ridimensionamento delle politiche previdenziali. Il messaggio di fondo è chiaro: la spesa sociale è vista come un costo da contenere, non come un investimento per la coesione.

  1. Imprese il miraggio della competitività

Sul fronte delle imprese, la Legge di Bilancio punta ancora una volta su incentivi fiscali e superammortamenti, confermando che quel poco di politica espansiva in Italia viene declinata esclusivamente in termini di sostegno al lato dell’offerta (leggi sistema delle imprese) e non alla domanda (supply-side economics). Gli investimenti in beni strumentali potranno essere maggiorati fino al 220% se legati alla transizione green, ma la misura riproduce un meccanismo noto: sostenere il capitale più che l’innovazione.

Anche nel settore bancario la logica è quella della stabilità: proroghe fiscali sulle perdite e agevolazioni per le imposte differite attive (DTA), senza un vero disegno di riequilibrio del credito verso il sistema produttivo.

  1. Imposta sulle banche e assicurazioni e sugli affitti brevi

Trattiamo per ultimo i due temi che più hanno attirato l’attenzione dei giornali: il contributo chiesto alle banche e assicurazioni con l’introduzione di un’imposta del 27,5% per il 2025 e del 33% per l’anno successivo (art. 20) su quella parte di utili netti che viene detenuta sotto forma di attività patrimoniale e l’aumento dell’aliquota sul reddito derivante dagli affitti brevi (ma solo quelli intermediati dalle piattaforme digitali come Air-BnB) dall’attuale 23% al 26%. Queste due misure hanno dato adito a posizioni assai divergenti tra i tre partiti della maggioranza, sino a parlare per quanto riguarda le banche di imposizione di tipo sovietico e per quanto riguarda gli affitti brevi di tassazione patrimoniali. È probabile pertanto che queste misure possano essere revisionate durante il dibattito parlamentare con l’effetto di ridurre il loro effetto sulle entrate fiscali.

  1. Le voci di bilancio non contemplate: Difesa e PNRR

Un capitolo a parte riguarda la difesa. Il governo ha confermato l’intenzione di aumentare gradualmente la spesa militare per raggiungere gli obiettivi NATO, ma rinvia la decisione a giugno 2026, per essere sicura di aver ottenuto l’obiettivo del tetto del 3% del rapporto deficit/Pil. In ogni caso, il governo italiano ha già fatto sapere che intenderà ricorre per una cifra pari a 14,5 miliari al fondo SAFE (Security Action for Europe), la cui liquidità per finalità di sicurezza e riarmo europeo (Progetto Re-Arm Europe) viene reperita sui mercati dei capitali internazionali e sarà erogata sotto forma di prestiti diretti agli Stati membri che ne faranno richiesta, comunque da restituire entro 10 anni. Per l’Italia si tratta del quinto contributo più sostanzioso, dopo quelli offerti a Polonia (43,7 miliardi), Romania (16,8 miliardi), Francia e Ungheria (16,2 miliardi per ciascuno).

Per quanto riguarda il PNRR, il governo contabilizza nel 2026 le riduzioni delle spese previste per il PNRR (oltre 5 miliardi nel 2026)… La mancata spesa del 2026, come concordato con la Commissione Europea, sarà rinviata agli anni successivi attraverso la creazione di uno specifico meccanismo che eviterà la perdita delle prossime rate del PNRR.

  1. Il bilancio come strumento politico (svuotato)

Il punto politico centrale della manovra non è tanto ciò che contiene, ma ciò che omette. La Legge di Bilancio 2026-2028 segna la fine della concezione espansiva della politica fiscale inaugurata con il PNRR. In un contesto di crescita debole e inflazione rallentata, il governo sceglie di ritirare la spesa pubblica proprio quando sarebbe più necessaria per sostenere domanda e investimenti.

Si tratta di una decisione coerente con la dottrina del rigore, ma incoerente con la realtà economica. Mentre Stati Uniti e Cina continuano a utilizzare la spesa pubblica come leva per orientare l’economia, l’Europa si riavvita su sé stessa, preoccupata più dei saldi che della sostanza.

  1. Conclusione: il rigore come destino?

La Legge di Bilancio 2026-2028 non è una manovra “sbagliata” in senso tecnico: i conti tornano, i parametri sono rispettati, le previsioni appaiono prudenti. Ma è una manovra povera di politica. Non affronta la questione salariale, non riforma il fisco in senso progressivo, non rilancia gli investimenti pubblici.

È il segno di un governo che interpreta la disciplina di bilancio non come strumento, ma come fine. E di un Paese che rinuncia a definire la propria strategia di crescita: come si decideva all’inizio, decide di non fare.

L’Italia si muove così dentro un paradosso: più la finanza pubblica è stabile, meno la società lo è. Meno il bilancio rischia, più l’economia si indebolisce. È la contraddizione di un’Europa che ha fatto della stabilità il suo dogma, dimenticando che la stabilità, senza sviluppo e senza giustizia sociale, non è un equilibrio: è solo immobilità. Ma le società di rating brindano e i mercati speculativi e i poteri forti gioiscono!

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