Il 18 luglio è stato pubblicato il Rapporto del CENSIS dal titolo “Gli italiani in guerra Indagine sulla percezione dei conflitti e sul riarmo nella società italiana”. In 32 pagine si riassume alla perfezione ciò che purtroppo la società italiana respira: guerra e riarmo.
“Le immagini dei conflitti armati in corso in diverse regioni del mondo si riversano quotidianamente nei nostri schermi televisivi con una forza che scuote l’opinione pubblica: i bagliori delle esplosioni squarciano il buio, le colonne di fumo si innalzano come presagi inquietanti, le sirene riecheggiano tra le rovine delle città ridotte in macerie. I telegiornali trasmettono senza sosta scene di devastazione, corpi feriti, esistenze spezzate. Non è più il tempo delle narrazioni astratte o dei remoti filtri mediatici: la guerra è cruda, reale, tangibile. I leader mondiali si alternano sulle tribune con discorsi dai toni ostili, intrisi di propaganda, mentre le diplomazie internazionali si muovono su un terreno scivoloso, tra minacce sottili e alleanze sempre più fragili.” – si legge nell’introduzione.
L’indagine del CENSIS sulla percezione della guerra nella società italiana e sul riarmo tratteggia un Paese che osserva il caos globale con insicurezza, sebbene non si sia ancora raggiunto il livello di allarme.
Secondo i dati del CENSIS, la possibilità che il Paese venga coinvolto in un conflitto armato entro i prossimi cinque anni è stimata al 31% dal campione intervistato, con variazioni che riflettono le diverse sensibilità dei diversi gruppi sociali: le persone meno istruite stimano un rischio del 35%, i laureati si attestano al 29%, mentre gli over 65, più cauti, indicano il 25%. Solo il 16% esclude categoricamente questa eventualità, mentre un altro 16% ritiene che le probabilità superino il 50%.
È un’Italia che non si abbandona a facili allarmismi, ma che avverte il peso di un mondo instabile e si prepara con il suo proverbiale pragmatismo, radicato in una storia di adattamento alle avversità e di gestione delle crisi.
Dal Rapporto emerge chiaramente che la popolazione italiana è vittima della propaganda bellica occidentale fondata sulla costruzione di “nemici necessari”. Infatti secondo il CENSIS, quando si chiede agli italiani chi rappresenti al momento “la principale minaccia militare”, le risposte delineano un immaginario plasmato dalle cronache recenti e da un’attenzione rinnovata alle recenti dinamiche globali: per il 50% è la Russia “il pericolo più tangibile”, seguita dai Paesi islamici (secondo il 31%, con un picco del 37% tra i laureati). Solo il 23% (il 27% tra i più istruiti) indica gli Stati Uniti come “una potenziale fonte di rischio”: un segnale di sfiducia verso un alleato storico percepito come “meno affidabile rispetto al passato”, ma al contempo una totale incomprensione della realtà se pensiamo che gli USA sono state causa della maggior parte della guerra negli ultimi 150 anni di storia.
La percezione di pericolosità segue, a distanza, Israele (16%), Cina (12%), Corea del Nord (10%) e Turchia (3%). Un dato indicativo il fatto che Israele venga percepito così poco pericoloso un Paese che dagli anni Quaranta è artefice di un’occupazione militare coloniale illegale delle Terre Palestinesi, di una sistema razzista d’apartheid nei confronti della popolazione palestinese e, dalla Nakba del 1948, è l’autore principale di quello che lo storico israeliano Ilan Pappe ha definito “genocidio incrementale” verso il popolo palestinese, sfociato nell’ottobre 2023 con l’attuale genocidio sistematico in corso.
Sebbene secondo il CENSIS questo mosaico di percezioni rivela “un Paese che osserva con attenzione gli scacchieri internazionali”, credo che questo riveli la diffusa superficialità con cui gli italiani guardino ai fenomeni internazionali, oltre al fatto che l’opinione degli italiani sia ancora troppo poco critica e si acconti di opinioni preconfezionate eterodirette dalla propaganda mainstream, soprattutto su Israele, la cui hasbara continua a promuoverne un’immagine idilliaca o comunque volta a giustificare tout court il suo “diritti a difendersi”. Per il resto si può essere concordi con il CENSIS sul fatto che la popolazione italiana si sente esposta a molteplici incertezze in un mondo sempre più frammentato e imprevedibile.
Il rapporto descrive un dato positivo: “Ormai consapevoli che l’epoca della pace garantita dai mercati globali è tramontata, gli italiani si muovono con cautela in un mondo che appare sempre più vacillante, dove le certezze di un tempo si sgretolano sotto il peso di nuove sfide geopolitiche, rivalità tecnologiche e lotte economiche.”
Di fronte all’ipotesi di una guerra, gli italiani dimostrano di non essere un popolo di guerriero, fortunatamente: “Gli italiani non mostrano slanci patriottici, né ambizioni di gloria. Tra i 18 e i 45 anni, la fascia d’età più direttamente coinvolgibile in caso di mobilitazione, solo il 16% si dichiara pronto a combattere, con una chiara differenza di genere: il 21% degli uomini contro il 12% delle donne. Il 39% si proclama pacifista e quindi protesterebbe, il 26% preferisce delegare la difesa a soldati professionisti e a mercenari stranieri, il 19% confessa senza remore che sceglierebbe la fuga per evitare il fronte e il dramma del conflitto.”
La società si mostra però poco incline al sacrificio bellico. Solo il 16% degli italiani si dichiara pronto a combattere per la patria o per un ideale, mentre una maggioranza ben più ampia sceglierebbe la protesta pacifista o addirittura la diserzione.
Il Rapporto sottolinea che “la crisi demografica che affligge il Paese” sarebbe il problema dell’Italia: la denatalità ha ridotto drasticamente il numero dei giovani, un problema che non riguarda solo il mercato del lavoro, ma anche la difesa nazionale. I capi di Stato Maggiore si trovano di fronte a un dilemma complesso: come rafforzare l’esercito in assenza di giovani. Evidentemente siamo ad un potenziale punto di svolta: come cantava Fabrizio De Andrè in “Girotondo” nel 1968, “la guerra finirà per il soldato che non ci andrà”.
Sul tema del potenziamento della sicurezza nazionale, gli italiani si dividono in modo netto. Solo il 25% sostiene in ogni caso un incremento delle risorse finanziarie destinate alla difesa, anche a costo di sacrificare voci di spesa cruciali come la sanità e le pensioni, per adattarsi a vivere in un mondo più pericoloso.
Colpisce però che il 26% preferirebbe delegare la difesa a mercenari stranieri, come se questo non fosse già stato un fallimento l’americanizzazione della difesa che abbiamo avuto in Europa con la delega totale alla NATO. Sembra che 1 italiano su 10 si dica favorevole a dotare il Paese di un arsenale nucleare: un’opzione che, pur minoritaria, segnala un mutamento di sensibilità in una parte della popolazione volta ad inseguire la logica della deterrenza nucleare. Una deterrenza nucleare che è ormai diventata insostenibile in quanto le 9 potenze nucleari nel mondo detengono complessivamente più di 12.000 testate (1): un numero lontano dal picco di oltre 70.000 raggiunto nel 1986, ma ancora rilevante nonostante il Trattato di Non-Proliferazione del 1970 e il Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari del 2021.
Nonostante ciò, secondo il CENSIS in Italia sembrerebbe cresce una posizione “neutralista”. L’Italia del 2025 si rivela, tutto sommato, un Paese che non ama la guerra, ma che si prepara a fronteggiarla con pragmatismo. La diffidenza verso le potenze globali, inclusi gli alleati storici, si accompagna a una fiducia limitata nelle proprie capacità militari e a un forte desiderio di neutralità. “La neutralità emerge come il principio guida della politica estera auspicata dagli italiani: una bussola che riflette una vocazione storica a evitare coinvolgimenti diretti nei conflitti armati.” – afferma il CENSIS. Peccato che questo neutralismo riguardi solo l’indecisione di schierarsi nei conflitti con una parte piuttosto che con l’altra e non sia invece chiara la posizione per volere un Paese neutrale libero dalla NATO e da qualsiasi alleanza militare.
La Nato rimane infatti un pilastro imprescindibile per il 49% degli italiani, con un consenso più forte tra i laureati (55%) e gli over 65 (57%), che vedono nell’alleanza atlantica una garanzia di stabilità. Tuttavia, il 18% preferirebbe alleanze a geometria variabile, l’8% propone l’uscita dalla Nato per affidarsi esclusivamente alle forze nazionali e un significativo 25% non ha un’opinione chiara in proposito, riflettendo un’incertezza diffusa su come orientarsi nel nuovo mondo divenuto più instabile e pericoloso.
Parallelamente, il 58% degli italiani guarda con favore alla creazione di un sistema di difesa europeo integrato, con un esercito unico e un comando unificato per tutti i 27 Stati membri dell’Ue (si raggiunge il 72% tra gli anziani). Solo il 22% si oppone invece a qualsiasi forma di riarmo, il 10% preferirebbe accordi solo con i Paesi europei più forti (come la Francia, che dispone dell’arma nucleare) e l’8% punta sull’autosufficienza militare: una scelta che il rapporto giudica come “minoritaria, che appare marginale in un contesto di forte interdipendenza internazionale”. Sarebbe in realtà quest’ultima a rappresentare il vero significato di neutralità.
Insomma, possiamo vedere che siamo di fronte anche una modificazione del concetto di “neutralità”, ridotto ad un’idea scarna e prematura ben lontana dall’avvicinarsi a posizioni pacifiste.
La stessa “neutralità” possiamo notarla nelle posizioni che gli italiani hanno sui due principali conflitti in atto:
- Sul conflitto russo-ucraino, il 33% (il 40% tra i giovani) sostiene una coalizione a favore di Kiev, solo il 5% si schiera con Mosca, ma il 62% preferisce una “posizione neutrale”, evitando rischi che potrebbero esporre il Paese a conseguenze imprevedibili;
- Nel conflitto mediorientale, il 21% è a favore dei palestinesi (il 29% tra i giovani, il 27% tra i laureati), il 9% sostiene Israele, ma il 70% invoca la “neutralità”, confermando la tendenza a non prendere posizione in contesti complessi che dividono l’opinione pubblica.
Questa situazione, più che definire una posizione neutrale, sembra invece esprimere – per la maggior parte – indifferenza ed equidistanza: due elementi non propriamente positivi per una democrazia. Dai dati emerge che gli italiani preferiscono non schierarsi perchè non sono in grado di riconoscere, nei presenti conflitti, l’oppresso, l’oppressore e il ruolo delle potenze estere che si divertono a giocare a Risiko con la pelle di intere popolazioni. L’equidistanza, in situazioni di ingiustizia, non è un fatto positivo, ma una conseguenza della grande operazione di confusione che l’informazione mainstream ha prodotto. Come diceva Malcolm X: “Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono”. Ed ecco che nel dubbio generato dalla confusione, gli italiani non si esprimono e non sanno chiaramente a chi esprimere la propria solidarietà. Individuare gli oppressioni non è una logica bellica o polarizzante, ma una presa di posizione che aiuta a stabilire la pace. E’ il punto di partenza per stabilire la pace e riconoscere le situazione di ingiustizia. Lo stesso avvenne con la fine dell’apartheid bianca e razzista in Sudafrica ad opera del movimento di liberazione di Nelson Mandela: prima si pose fine all’ingiustizia e poi si lavorò per costruire la giustizia e la convivenza, giorno dopo giorno, con un lungo processo di riconciliazione. Non schierarsi dalla parte dell’oppresso, significa ignorare il problema e quindi essere un ostacolo.
Negli attuali conflitti, possiamo affermare che gli italiani si stabiliscono sempre per quello che sono: eterni moderati che non si schierano per paura di schierarsi contro i più forte.
L’indagine del Censis delinea però un’Italia che guarda al caos globale con un misto di realismo e disincanto. Si legge: “La fine della pace dei mercati segna l’ingresso in un’era di nuova competizione per assicurarsi le risorse naturali e logistiche. La corsa al riarmo è già iniziata e la guerra non è più un’ipotesi remota: bombardamenti, invasioni, persino la minaccia nucleare sono scenari che si fanno sempre più concreti. Eppure, gli italiani non cedono all’allarmismo. La percezione del rischio rimane moderata, l’opposizione alla guerra come soluzione è netta, e le alleanze, pur con qualche crepa, sono viste come una rete di sicurezza indispensabile. Neutralisti per convinzione o per calcolo opportunistico, gli italiani si muovono con prudenza in un mondo che sembra aver smarrito ogni stabilità, scommettendo sulla diplomazia, ma senza farsi illusioni sulla tenuta di un ordine globale ormai compromesso. La consapevolezza di vivere in un’epoca di transizione si accompagna a un’ansia trattenuta, a un senso di fragilità di fronte a un futuro incerto, in cui la pace appare un bene sempre più prezioso.”
Nonostante ciò, è il governo italiano (che dalle ultime votazioni sembra rappresentare la maggioranza degli italiani elettori) a non essere nè “neutralista”, nè “disertore”, nè tantomeno “pacifista”.
Scrive il CENSIS: “Nel 2024, l’Italia ha destinato alla difesa 35,6 miliardi di dollari, pari all’1,5% del Pil, secondo le stime della Nato. Un impegno che posiziona il nostro Paese al 5° posto tra gli alleati per la spesa in termini assoluti, alle spalle di Stati Uniti, Germania, Regno Unito e Francia. L’allocazione del 21,6% del budget era orientata all’equipaggiamento – armamenti, mezzi militari, tecnologie di comunicazione –, superando così la soglia del 20% indicata come obiettivo dall’alleanza atlantica (tab. 14). Questo sforzo si inserisce in un trend di crescita rilevante. In dieci anni, la spesa militare italiana è aumentata del 46,0% in termini reali: un segnale di adattamento a un contesto geopolitico sempre più instabile.”
Il fatto che l’Italia sia tra i Paesi NATO che meno spende in spese militari, non nega che il riarmo condotto dal Governo Meloni sia completamente in controtendenza rispetto alla posizione – seppur blanda, confusa e contraddittoria – degli italiani che con la guerra non vogliono avere a che fare. Un riarmo ingiustificabile.
Rapporto CENSIS “Gli italiani in guerra Indagine sulla percezione dei conflitti e sul riarmo nella società italiana” https://www.censis.it/sites/default/files/downloads/Gli%20italiani%20in%20guerra.pdf
(1) La Federazione Russa possiede 5.459 testate, gli Stati Uniti 5.177, consolidando la loro supremazia strategica. Seguono la Cina (600 testate atomiche), la Francia (290), il Regno Unito (225), l’India (180), il Pakistan (170), Israele (90) e la Corea del Nord (50). Come si può bene vedere l’Iran non è presente perchè non ha un programma nucleare militare, ma bensì un programma nucleare civile per altro costantemente monitorato dall’AIEA come testimonia la lettera inviata dal Ministro degli Affari Esteri iraniano il 22 maggio 2025 indirizzata al Segretario Generale e al Presidente del Consiglio di Sicurezza ONU per prevenire gli attacchi israeliani ai siti iraniani.










