Firenze, una sera d’estate in cui il vento soffia e spazza via il tepore, forse anche il torpore, risvegliando le coscienze e la storia, la Comunità si racconta, aprendosi attraverso la presentazione di un libro, scritto da Francesca Manuelli, ed insieme le narrazioni di chi questo luogo lo abita, persone amiche, che hanno accompagnato e accompagnano ancora il cammino della comunità.

Alessandro Santoro, introducendo, invita ad attraversare questo spazio, guardare le foto al Germinale ed i banchi collocati nella piazza, banchi in cui sono illustrate le attività che sono anima e significato di questa esperienza collettiva; Lorenzo Guadagnucci ha il compito di aiutare a mettere insieme tutte le voci, a partire da Francesca Manuelli, autrice del libro, che contiene voci di tante persone, che fanno parte di questa storia.

Stefano Massini, leggendo e leggendosi attraverso il libro, ricorda di essere arrivato a Le Piagge che era il 1983, aveva sette anni; i suoi genitori non si potevano permettere una casa a Firenze e così avevano scelto Le Piagge, che in lui da subito furono narrate col senso de “Le Spiagge”, avendo così assunto un fascino particolare; ricorda quando venne a vedere il cantiere, un luogo “stranissimo”, luogo che ancora non esisteva, “marea di condomini uno accanto all’altro”; non c’era una piazza, tutto il quartiere si chiamava con i numeri, “sembrava l’inferno di Dante”, dove i numeri indicavano gradi diversi di pericolosità.

“Il solo la cui famiglia aveva deciso di venire ad abitare qua” (non erano mandati a vivere qua); rievoca la presenza di un furgone, “con lamiere di ferro saldate”, si facevano lì dentro le pizze e tanta gente fuori in fila per comprarle; “sono cresciuto in queste Piagge, che colpivano perché c’erano i poveri, che negli Anni Ottanta li percepivi come tali, mandati tutti qua”. Parlando di povertà e marginalità, puntualizza come in passato erano i poveri ad abitare al centro delle città, mentre i borghesi abitavano nei borghi intorno ed i nobili fuori nel verde; oggi in realtà accade l’opposto: sono le periferie ad essere “dormitori”, e questo processo iniziò negli Anni Ottanta. “Avevi tutto il mondo in classe, carico di complessità sociali”; ricorda un sacerdote venire all’ora di religione, con una grande mantella nera, e le persone che lo vedevano passare abbassavano la testa e lo chiamavano “signor priore”, e così un altro sacerdote; poi iniziò a spargersi voce che era arrivato “uno che iniziava a chiamarsi prete e che metteva bigliettini nelle cassette con scritto “Io dico messa a Le Piagge” … aveva trenta anni e giocava a pallavolo: un modello differente di figura religiosa, rispetto ai sacerdoti con la mantella da salutare con reverenza.

Al momento della nascita di questa esperienza, Stefano Massini ricorda che questo luogo è diventato “il luogo che dava il senso”; la piazza, che si veniva così ad aprire, dal greco “platea”, assumeva così il senso di luogo dove portare “lo sbando esistenziale, l’assenza di certezze, la voglia di aiutare gli altri a ritrovarsi e ritrovare così un significato”. Oggi i poveri sono “profondamente cambiati”: “Hanno un lavoro, ma non sempre arrivano a fine mese, sono invisibili”, qui – in questa piazza – più visibili, anche se diversi da un tempo: “finti normali” sono quei poveri “costretti a venire a patti”, quindi costretti a dare meno nell’occhio. E, se oggi è difficile stare al passo, “questo luogo ha cercato di ascoltare e accogliere tutti: è un luogo verso cui avere gratitudine”. Questa piazza non è ancora asfaltata ed “è bella perché è incompiuta e ti accoglie nell’incompiutezza”; se partissimo dalla nostra incompiutezza, ci si potrebbe “abbracciare per completarci”, mentre l’essere risolti è l’atteggiamento dell’egoista, che non ha bisogno di altri”.

Lorenzo Guadagnucci definisce il libro di Francesca Manuelli “notevole”: descrive e racconta la storia della comunità, da prima dell’arrivo di Alessandro Santoro; descrive la missione della comunità, che sta “dentro le cose più grandi”; Le Piagge sono “una delle poche perle della città, un luogo su cui appoggiarsi contro l’imbarbarimento della città”; ricorda che, rientrato a Firenze nel 2002, allora era il tempo del Forum Sociale Europeo: “una delle cose più alte e la comunità era tra i primi promotori”, esempio della rete Lilliput, protagonista del Movimento globale, che era già nella Genova del 2001.

Racconta la propria storia personale connessa al G8 di Genova, dove “avevo avuto una brutta esperienza”, e si costituì allora il Comitato Verità e Giustizia per Genova”, con lo scopo di raccontare e informare su quello che era accaduto realmente a Genova, “una grave caduta di legalità costituzionale”, cercando di dare un senso a quello che era successo. A Le Piagge fu organizzato allora un incontro sul G8, che metteva a confronto le vittime degli abusi (come nell’esperienza personale vissuta della tortura, subìta alla Diaz) ed i rappresentanti delle forze di polizia. La Comunità può essere quindi definita anche come “comunità di lotta”, oltre che esperienza spirituale: “La comunità è fatta di credenti e non credenti, che riconosce la sacralità dell’essere umano, comunità resistente alla mercificazione, al sistema economico basato sul profitto: comunità con alto profilo politico, con profonde radici culturali, propensa all’azione”. “Quando la sinistra ha iniziato a diventare di destra”, con l’ordinanza contro i lavavetri, ricorda ci fu una mobilitazione ed un presidio sotto Palazzo Vecchio, con una staffetta di digiuno iniziata proprio da Alessandro Santoro, insieme con Tiziano Cardosi; dentro quella lotta ci fu uno scontro diretto, con lo stesso Alessandro e l’assessore Graziano Cioni, che l’ordinanza aveva firmato. Da quel tempo si torna all’oggi e si invita all’analisi critica.

Padre Bernardo Gianni recupera il senso religioso – spirituale, citando Silvano Piovanelli, e invitando a considerare le Piagge come “periferia della grazia”, “meravigliosa Mesopotamia”; ricorda che Alessandro fu mandato per costruire rapporti veri, per lottare contro il degrado del quartiere; così le persone furono chiamate a condividere, a uscire dalla stasi, alcune condividendo la fede, altre “fermandosi al sussulto etico – politico, in una prospettiva preziosa di paradosso di forme – non-forme, qui e altrove, credenti e non credenti, praticanti e non praticanti, eccedendo l’ambigua opposizione del sacro e del profondo”.

Anticipa (quando poi Alessandro commenterà) che non era necessario avere un edificio per essere luogo di pratica e credenza religiosa; parallelamente, accenna al vergognoso sgombero  militarizzato di Vicofaro, per “sloggiare” così le persone dall’effettiva partecipazione (religiosa e non). Citando Antonietta Potente, invita a “leggere il rovescio della trama”: “Da qui può arrivare una parola di futuro per creare un tessuto nuovo”.

Alessandro Santoro, rispondendo alle sollecitazioni di Lorenzo Guadagnucci sulla sua prospettiva (ecclesiale) e sul senso dell’anarchia, tende a precisare di non voler accentrare su se stesso le risposte, bensì restituirle in dimensione collettiva: “Il mio pensiero è legato a quello che ho vissuto e imparato con le persone che abitano qua, la Comunità” e in una visione di futuro, anticipa che la comunità dovrà continuare a “girare intorno alle persone che vivono nel quartiere”. Ricorda che “questa storia era nata un po’ da una follia personale: era necessario unire la mia esperienza di adesione alla vita così come insegnata da Gesù a un modo corrispondente a quello che è per me, scegliendo di non stare nei privilegi che la chiesa si costruisce per sé”: “Eresia del Vangelo, non mi ritrovo nella Chiesa”. Ed è quindi su questo concetto che si innesta anche l’anarchia, trovando in Gesù “una non piegatura alla mediazione”: “L’anarchia è una profezia, il sogno di una cosa, di tirare fuori la bellezza dentro cui si è nati; l’anarchia è aprire una porta perché ciò che è bello possa esprimersi”; poi naturalmente crea un ponte con l’anarchia politica, che “accompagna la mia storia, nel disagio nello stare dentro tutto ciò che è istituito”. E ancora: “L’anarchia è fantasia, è nel camminando che si apre il cammino”.

Ricorda l’importanza assunta da amici come Alex Zanotelli e la teologia della liberazione, la necessità di espoliazione, dentro un “sentirmi inquieto e provvisorio”: “Mi riconosco come essere umano”. Infine, invita la comunità a continuare nel cammino, per “poter costruire un’altra storia”, in maniera nuova, “vivendo da persone che guardano il mondo con una fantasia diversa”. Questa comunità può essere definita “a bassa identità e ad alta intensità”: come dice Alex, alla domanda “Te chi sei?”, risponderebbe: “Io sono tutte le persone che ho incontrato”, “che non ci sia più alcun crocefisso attaccato alla chiesa, nessun muro a separare la piazza dal luogo chiuso: “A bassa identità è la piazza che celebra la vita, senza che tu perda niente della tua identità, ad alta intensità è nell’alta libertà, che non si fa assecondare, ma è disposta a gridare per generare altra vita dalla propria vita, collettivamente”.

Infine, in una miscellanea di pensieri propri e ripresi da Alex Langer, Alessandro invita a non avere fretta, “custodire il fragile, essere piccoli per scegliere”. “La profondità è rivoluzionaria”, bisogna avere “il coraggio della sobrietà. “La pace è tessitura quotidiana di legami”. “La nonviolenza è la più alta forma di forza, costruire ponti, rifiutare il riarmo”. Invita infine a “stare dalla parte della vita che cresce lenta”, avendo cura di tutto ciò che cresce piano.

Firenze, una sera d’estate in cui il vento soffia e spazza via il torpore, la Comunità invita a restare dentro il racconto, in una cena di condivisione e di prosecuzione del cammino, che è e sarà a partire da questo luogo verso tutti gli altrove in cui le parole possano risuonare e sospingere i passi.

Foto di Paolo Mazzinghi

Emanuela Bavazzano – Redazione Toscana Pressenza