Si è tenuto ieri, giovedì 12 giugno, un importante incontro dibattito organizzato dalla Fondazione Gramsci alla Casa della Memoria e della storia di Roma dal titolo “Israele e la diaspora ai tempi di Gaza: confronto o separazione?”

La locandina riporta la foto dei membri di Jewish Voice for Peace e del movimento If Not Now che espongono al Congresso degli Stati Uniti d’America lo striscione “Jews say ceasefire now!” I due gruppi di attivisti ebraici organizzarono infatti un raduno il 18 ottobre 2023 a Washington DC per chiedere un cessate il fuoco nella guerra tra Israele ed Hamas.

La posizione degli organizzatori dell’incontro non dà spazio ad alcuna ambiguità: è una severa condanna del governo israeliano, che sta perpetrando a Gaza, ma anche in Cisgiordania, una politica di pulizia etnica, apartheid, crimini contro l’umanità e per molti ormai già di vero e proprio genocidio.

La sala è strapiena. Partecipanti, relatori e pubblico rivendicano la loro appartenenza alla diaspora ebraica e sono costretti a pronunciarsi in quanto ebrei e non solo come molti preferirebbero da cittadini italiani disgustati dalle complicità del governo italiano. Lo Stato di Israele, che ormai si definisce ebraico, ha la pretesa di rappresentare l’intero e variegato mondo ebraico presente nella maggior parte dei Paesi dei vari continenti e di fare una guerra di sterminio del popolo  palestinese per difendere gli ebrei di tutto il mondo. Questa pretesa trova una sponda nell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, che si sono pronunciate con documenti ufficiali di sostegno incondizionato al governo e all’esercito israeliani.

I relatori e le persone del pubblico presenti vogliono ribadire al contrario la posizione di una parte rilevante della diaspora ebraica che afferma: “Not in my name!”

La diaspora ebraica, ribadiscono diversi relatori, faceva parte degli oppressi, dei vinti e degli sconfitti e non vuole essere arruolata nel campo degli oppressori e dei vincitori.

Per oltre duemila anni gli ebrei hanno saputo preservare con tenacia disarmata la propria irriducibile identità senza bisogno di uno Stato, di un esercito e più in generale dell’uso della forza intesa come violenza diretta contro gli altri.  La parte più attiva e consapevole della diaspora si è sempre battuta non solo per affermare e per difendere i propri diritti, ma per costruire una società democratica, laica e pluralista, rispettosa dei diritti e delle libertà di tutti gli esseri umani considerati come fratelli e sorelle e, per chi aveva e ha una fede religiosa, come figli di un unico dio.

L’incontro è stato presentato da Silvio Pons, dell’Istituto Gramsci. Appartiene alla Comunità Valdese, ha ricordato, che al pari degli ebrei ha una lunga storia di discriminazioni e persecuzioni e al tempo stesso una storia di lotte e di riscatto e ha sempre difeso i diritti di tutti e tutte.

Sono quindi intervenuti Roberto della Seta, Stefano Levi della Torre, Simon Levis Sullam, David Calef (del gruppo Mai Indifferenti), Martina Piperno (del Laboratorio Ebraico Antirazzista, formato soprattutto da giovani) e Widad Tamimi, la cui madre apparteneva ad una storica famiglia ebrea di Trieste, mentre il padre era un profugo palestinese. Inoltre in collegamento da Israele sono intervenuti la psicoterapeuta italo-israeliana Sarah Parenzo e Gadi Algazi, autorevole voce del movimento pacifista israeliano e uno dei primi obiettori di coscienza: nel 1982 si è infatti rifiutato di andare a combattere in Libano, scelta che ha pagato con il carcere.

I relatori sono tutti firmatari dell’appello “Ebree ed ebrei italiani dicono: No alla pulizia etnica. L’Italia non sia complice” sottoscritto da oltre trecento persone, tra cui Gad Lerner e Roberto Saviano e pubblicato a pagamento su due quotidiani nazionali, che riprendeva un analogo appello precedentemente pubblicato negli Stati Uniti e in Australia. Tra i tanti nomi ebraici c’è anche quello di Widad Tamimi, orgogliosa della sua doppia identità di ebrea e di palestinese: due famiglie assai diverse, ma entrambe profughe (dalla Cecoslovacchia invasa dai nazisti tedeschi e dalla Palestina occupata dall’esercito israeliano).

I relatori hanno sottolineato la netta chiusura dei dirigenti delle comunità ebraiche italiane, che non hanno mostrato alcuna disponibilità e interesse al dialogo ed al confronto, trattando sostanzialmente come traditori o utili idioti i firmatari. David Calef sottolinea la netta differenza con ciò che è avvenuto negli Stati Uniti, dove un analogo appello è stato firmato da oltre trecento rabbini.

Assai diverso era il clima che si respirava al tempo dell’invasione del Libano, quando gli organi ufficiali di stampa delle comunità ebraiche italiane ospitavano articoli di diverso e opposto orientamento.

Interessanti anche gli interventi del pubblico.

Il giornalista Wlodek Goldkorn ha ricordato che nello stesso anno in cui nacque il movimento sionista in Polonia si formò anche il Bund, che riuniva i lavoratori ebrei, aveva un’ideologia socialista e collaborava con tutte le altre organizzazioni dei lavoratori.

Pupa Garribba ha raccontato della figlia che giovanissima decise, sorprendendo i famigliari, di trasferirsi in Israele prima ancora di terminare l’università per aiutare Rabin a fare la pace con i palestinesi e andò a vivere in un kibbutz aperto alla convivenza tra arabi ed ebrei. Ora partecipa alle marce della pace in cui i manifestanti espongono le foto dei bambini uccisi a Gaza.

Voce critica nei confronti dell’impostazione del convegno è quella di Massimiliano Boni, di Sinistra per Israele e membro del Consiglio dell’Unione delle Comunità Israelitiche in Italia, secondo cui esistono diversi sionismi. Ricorda che Natalia Ginzburg non era una vera ebrea perché ebbe funerali cattolici e che nell’Ucei di cui fa parte le posizioni sono molto variegate. Una giovane che rivendica l’appartenenza alla comunità ebraica di Roma e opera in Cisgiordania con i pacifisti israeliani e palestinesi non è assolutamente d’accordo, perché il dramma palestinese iniziò parallelamente alla nascita dello Stato israeliano, con la Nakba e la pulizia etnica dei territori occupati; inoltre, sostiene, non c’è possibilità di dialogo con i responsabili delle comunità ebraiche italiane che tacciano di tradimento ogni voce critica.

L’incontro pubblico ha ben evidenziato l’articolata posizione degli ebrei italiani che non si riconoscono nello Stato israeliano nonostante legami famigliari che talvolta provocano lacerazioni e fratture, ma nel valore storico della diaspora che ha saputo preservare per due millenni l’identità ebraica con un’incredibile e pacifica capacità di resistenza. Questa ha la sua radice nella fedeltà alla Tōrāh, alla quale i sionisti, movimento politico coloniale affine ai vari movimenti nazionalisti europei, vero flagello del mondo, preferiscono Il libro di Giosuè che esalta la guerra.