La popolazione residente in Italia è in calo dal 2015 e, secondo le proiezioni dell’Istat, tale tendenza si intensificherà da qui al 2050, per effetto di un numero di nascite insufficiente a compensare quello dei decessi, malgrado il saldo migratorio rimanga positivo.
E il prolungato calo delle nascite e l’invecchiamento delle coorti del baby-boom comporteranno una diminuzione del numero delle persone in età da lavoro ancora più intensa: nel 2050 la popolazione di età compresa tra i 15 e i 64 anni sarà inferiore ai 30 milioni di unità, circa un milione in meno di quanto non fosse nel 1950; per ogni dieci persone in età da lavoro, vi saranno otto bambini e anziani, rispetto agli attuali sei. Sono alcuni dei dati della “testimonianza” del Vice Capo del Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia Andrea Brandolini, tenuta davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sugli effetti economici e sociali della transizione demografica.
Il calo della popolazione e il suo invecchiamento avranno profonde ripercussioni su molti aspetti, a partire dal lavoro e dalla crescita economica, con le relative conseguenze sulle finanze pubbliche. Gli andamenti demografici determinano il numero delle persone potenzialmente disponibili a lavorare e così influenzano uno degli input fondamentali del processo produttivo. La partecipazione effettiva al mercato del lavoro dipende da molti fattori, tra cui le condizioni della domanda di lavoro e varie scelte individuali (percorso scolastico, impegni familiari, momento del pensionamento), ma in generale l’invecchiamento della popolazione tende a ridurre il numero delle persone in età da lavoro, convenzionalmente fissata tra i 15 e i 64 anni. Una minore disponibilità di manodopera ha meccanicamente un effetto negativo sulla crescita economica, se non è compensato da una maggiore intensità di lavoro o da una sua maggiore produttività.
Brandolini sottolinea che: “Nei prossimi venticinque anni, se i tassi di occupazione, gli orari di lavoro e la produttività oraria rimanessero immutati sui livelli attuali, il calo della popolazione in età da lavoro implicherebbe una diminuzione dell’input di lavoro e quindi del PIL dello 0,9 per cento all’anno. La riduzione del PIL pro capite sarebbe più contenuta, lo 0,6 per cento annuo, per effetto della parallela flessione della popolazione complessiva”. Un fattore demografico che può controbilanciare il saldo naturale negativo anche nel breve periodo è l’immigrazione. L’ingresso di cittadini stranieri ha interamente sostenuto la crescita della popolazione residente dall’inizio degli anni duemila fino al 2014; ciò non è più avvenuto dal 2015 quando i flussi in entrata si sono ridotti e l’emigrazione di italiani e stranieri è aumentata.
“L’immigrazione è stata finora cruciale – si legge nella testimonianza di Brandolini – per colmare i vuoti creati nel mercato del lavoro dal declino della popolazione autoctona. Nel 2024 gli stranieri rappresentavano il 10,5 per cento dell’occupazione totale, ma raggiungevano il 15,1 per cento tra gli operai e gli artigiani e il 30,1 tra il personale non qualificato; erano il 16,9 per cento nelle costruzioni e il 20,0. in agricoltura. I lavoratori immigrati per lo più svolgono occupazioni di bassa qualità e peggio retribuite, meno accette ai lavoratori italiani”.
Secondo dati dell’INPS per il settore privato non agricolo, nel 2019 tra i lavoratori dipendenti che avevano una retribuzione settimanale appartenente al quinto meno pagato dell’intera distribuzione il 35 per cento era nato all’estero, a fronte di solo il 7 per cento nel quinto più pagato. Queste stime riguardano la componente regolare dell’occupazione dipendente che ha un contratto dichiarato all’INPS: il quadro si aggraverebbe se fossero considerati anche gli occupati irregolari e gli addetti dell’agricoltura.
Come evidenzia il Vice Capo del Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia, l’Italia destina meno del 25 per cento delle risorse europee del Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (AMIF) a misure di integrazione attiva; nessuna a informazione, orientamento, sportelli unici, formazione civica e di altro tipo, eccetto i corsi di lingua. Secondo l’indagine europea sulle forze di lavoro, nel 2021 il 51,1 per cento degli immigrati in Italia non conosceva la lingua italiana prima di trasferirsi nel nostro Paese, quasi cinque punti percentuali in più della corrispondente media per Francia, Germania, Paesi Bassi e Spagna; meno di un immigrato ogni cinque partecipava in Italia a corsi di lingua, rispetto a più di uno ogni quattro negli altri principali paesi dell’area dell’euro. “Nel contesto normativo attuale – evidenzia Brandolini – permangono spazi per migliorare significativamente l’attrattività dell’Italia, in particolare per i lavoratori stranieri qualificati. Interventi che, oltre alla formazione linguistica, favoriscano il riconoscimento delle qualifiche professionali ottenute all’estero, permetterebbero di massimizzare i benefici a lungo termine dell’immigrazione meno qualificata, come dimostrato dall’evidenza internazionale”.
Anche l’attuale governo di destra, quello dei “blocchi navali”, è stato costretto a fare i conti con questa realtà, aumentando – quatto quatto – i numeri dei decreti flussi per i lavoratori extraeuropei in ingresso. Aumento che resta comunque del tutto insufficiente. Alla base dell’accoglienza dovrebbero esserci ben altre considerazioni (e valori), perché come spesso ha “gridato” Papa Francesco: “i migranti scappano per povertà, per paura, per disperazione”, sottolineando che alcune delle cause più visibili delle migrazioni sono “persecuzioni, guerre, fenomeni atmosferici e miseria”. Tuttavia, non cogliere il nesso tra immigrazione e mercato del lavoro e la più “miserevole” necessità di colmare (organizzandosi) i vuoti creati dall’incessante diminuzione della popolazione autoctona è soltanto stupida e pericolosa miopia.
Qui la “testimonianza” di Andrea Brandolini: https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/interventi-vari/int-var-2025/Brandolini-15.04.2025.pdf.










