Da quando diversi governi occidentali hanno annunciato la loro intenzione di riconoscere uno Stato
palestinese, noi che viviamo sotto l’occupazione israeliana abbiamo seguito le notizie con cauto interesse.
Per alcuni osservatori, queste dichiarazioni rappresentano una svolta significativa nella lotta palestinese,
in particolare da parte di paesi potenti come Francia, Australia e Canada che per decenni hanno sostenuto
e protetto il regime di occupazione israeliano.
Il riconoscimento tardivo e tiepido della Gran Bretagna ha un peso simbolico ancora maggiore. In quanto
Stato che ha emanato la famigerata Dichiarazione Balfour aprendo la strada alla creazione di uno Stato
ebraico in Palestina, ha una responsabilità storica per la Nakba del 1948 e le sue durevoli conseguenze.
Tuttavia, questo cambiamento, che è costato innumerevoli vite a Gaza e in Cisgiordania, non significa una
ritrovata chiarezza morale.
I palestinesi sanno che non sarebbe avvenuto senza le massicce manifestazioni nelle capitali occidentali,
dove i cittadini si sono ribellati per la giustizia, la libertà e l’umanità, costringendo i loro governi a
rispondere.
Allo stesso tempo, molti temono che queste mosse abbiano più a che fare con l’insabbiamento delle
responsabilità dei governi complici che con la giustizia. Il riconoscimento, sebbene importante,
rimarrà privo di significato se non porterà alla fine definitiva dell’occupazione e del genocidio
attraverso una risposta seria, ferma ed efficace ai crimini di Israele.
Ostacoli incessanti
Come agricoltore, ogni autunno sono costretto ad affrontare la crudeltà delle politiche israeliane, quando
raggiungere i miei uliveti diventa un calvario di cancelli e posti di blocco.
Quest’anno, il momento del riconoscimento internazionale coincide con la raccolta delle olive, la stagione
agricola più importante in Palestina, vitale per il sostentamento di migliaia di famiglie e profondamente
simbolica per la nostra identità.
Io e la mia famiglia dovremmo essere tra gli ulivi nel nostro villaggio ancestrale di Qira, vicino a Salfit.
Invece, dobbiamo affrontare ostacoli incessanti, non solo a causa delle siccità stagionali o dei parassiti,
ma anche delle restrizioni sistematiche imposte dall’occupazione.
Per i palestinesi, la raccolta delle olive è più di una necessità economica: è un atto di resilienza e
appartenenza. In tutta la Cisgiordania, tuttavia, famiglie come la mia si vedono negare l’accesso ai nostri
uliveti da ordini militari e sono costrette a guardare i coloni sradicare e bruciare i nostri alberi.
Questa realtà solleva domande urgenti: se il riconoscimento internazionale non porta a risultati politici
importanti come la libertà, la fine dell’occupazione e la creazione di uno Stato palestinese, almeno fermerà
lo spargimento di sangue e la carestia a Gaza?
Oltre il riconoscimento
Queste domande mettono in luce la vacuità del riconoscimento quando non è accompagnato da azioni
concrete. Per decenni i palestinesi hanno sopportato l’occupazione mentre la comunità internazionale non ha adempiuto alle proprie responsabilità politiche e giuridiche, applicando il diritto internazionale con un palese doppio standard.
Troppi governi considerano il riconoscimento della Palestina come la strada più facile e meno costosa: un gesto simbolico che placa l’opinione pubblica interna, attenua l’intensità delle manifestazioni e permette
loro di rivendicare una posizione morale senza confrontarsi con i crimini di Israele.
Ciò di cui i palestinesi hanno più bisogno sono misure decisive: porre fine alla cooperazione con
Israele, imporre sanzioni economiche e perseguire i suoi leader per crimini di guerra. Solo tali
misure potrebbero costringere Israele a cambiare radicalmente rotta.
Per i palestinesi, questi riconoscimenti dovrebbero anche fungere da catalizzatore per l’unità e il
rinnovamento. Devono spingerci a stabilire un sistema democratico e inclusivo basato sulla libertà e la
giustizia, piuttosto che uno che esclude le principali fazioni politiche su richiesta dei governi stranieri.
Gesto vuoto
Il riconoscimento di uno Stato palestinese “indipendente” mentre esso rimane teatro di occupazione,
pulizia etnica e genocidio ormai giunto al suo terzo anno non fa che sottolineare l’assurdità e la totale
vacuità del gesto.
A Gaza, più di 720 giorni di uccisioni di massa, sfollamenti, fame e devastazione hanno lasciato intere
comunità in rovina. In Cisgiordania, Israele ha frammentato città e villaggi, ha permesso gli attacchi dei
coloni e ha distrutto i campi profughi nel nord, sfollando i loro residenti.
Ora ci sono più di 1.000 cancelli e barriere in tutta la Cisgiordania, che copre solo 5.000 km2, il che
significa una barriera o un cancello ogni 5 km.
Un blocco economico e finanziario impedisce a decine di migliaia di lavoratori di raggiungere il proprio
posto di lavoro. Nel frattempo, i dipendenti pubblici non ricevono lo stipendio completo da due anni a
causa delle restrizioni imposte all’Autorità palestinese, che hanno paralizzato servizi essenziali come la
sanità e l’istruzione.
Di fronte a questa realtà, le dichiarazioni di riconoscimento suonano vuote se non affrontano il
meccanismo dell’occupazione e del genocidio.
In definitiva, saranno le risposte alle domande poste dai palestinesi a determinare come questi
riconoscimenti saranno ricordati: come una pietra miliare storica o semplicemente come inchiostro su
carta, un’altra serie di risoluzioni finite negli archivi delle Nazioni Unite e dei governi mondiali.
A meno che il riconoscimento non sia sostenuto da sanzioni, responsabilità e pressioni concrete per
smantellare l’occupazione, rischia di servire solo come copertura per i governi complici piuttosto che
promuovere la giustizia per la Palestina.
L’articolo è apparso in inglese su Middle East Eye, tradotto in italiano per Pressenza da Nazarena Lanza










