Intervista di Teresina Caffi a Raphael Wakenge. Al fondo una precisazione da parte dell’intervistatrice.

Lo scorso 16 febbraio, il movimento M23/AFC, sostenuto da numerosi militari ruandesi, è entrato senza una vera opposizione nella città di Bukavu, nel Sud-Kivu, Repubblica Democratica del Congo. Qual è la situazione della città a circa tre mesi da questo evento? Lo abbiamo chiesto a Raphael Wakenge, decano della Società civile della Provincia, coordinatore dell’Iniziativa congolese per la giustizia e la pace (Icjp, e-mail: icjp2014.rdc@gmail.com) e coordinatore nazionale della Coalizione congolese per la giustizia di transizione, che vive a Bukavu.

Qual è la situazione attuale della sicurezza nella città di Bukavu?

Rimane preoccupante. Ricordiamo che dall’entrata dell’M23, all’inizio di febbraio 2015, la provincia del Sud Kivu è divisa: la parte meridionale è governata dalle autorità provinciali, il resto da un governo de facto stabilito dall’M23 nella zona che controlla. In quest’ultima parte, la vita umana è profanata; ogni giorno si raccolgono cadaveri, si registrano rapimenti di uomini e donne: a volte vengono ritrovati vivi, ma la maggior parte morti. Oppure scompaiono.

Quali sono le sfide quotidiane che la popolazione di Bukavu affronta?

Nel Sud Kivu in generale e a Bukavu in particolare, c’è incertezza: nessuno sa cosa può succedere e ognuno si chiede quando finirà il calvario che sta attraversando. La gente fatica ad accedere anche ai mezzi di sostentamento: avere l’acqua, l’elettricità è un problema, del cibo non ne parliamo. Poiché le persone non possono accedere alle banche, al microcredito, alla loro retribuzione, è difficile sopravvivere.

Alcune istituzioni non funzionano più: non si può arrivare facilmente al proprio posto di lavoro. È difficile raggiungere i territori che producono per la città o trasportare i prodotti agricoli a causa della mancanza di manutenzione delle strade e delle infrastrutture stradali nonché dei posto di blocco a pagamento installate dalle milizie filogovernative Wazalendo o dall’M23. Sui prodotti provenienti dalla città di Goma, l’M23 impone una doppia tassazione. Tutto ciò fa aumentare il costo della vita e accresce l’impoverimento della popolazione di Bukavu.

Queste tasse vanno a beneficio della popolazione?

Secondo le informazioni che abbiamo, non si sa dove finiscano e i vantaggi per la popolazione non si vedono. Così è netta l’impressione che gli abitanti continuino a non avere fiducia nei nuovi padroni della città.

Le rapine e i saccheggi continuano?

Vengono segnalati regolarmente casi di furti e saccheggi. L’identità degli autori non è ancora ben definita: M23, o persone che si nascondono sotto l’identità dell’M23, persone che si presume fossero nelle carceri, delinquenti di lungo corso, elementi della polizia e dell’esercito incontrollati che non hanno seguito gli altri nella loro fuga… Il monitoraggio dei casi continua. Quando sarà il momento, gli attori della società civile cercheranno di scoprire chi ha realmente commesso tali atti; allora avremo bisogno di giurisdizioni competenti. Il furto e il saccheggio di beni dello Stato è particolarmente preoccupante. E si verifica apertamente.

Cosa pensare della moltiplicazione dei fatti di «giustizia popolare»?

In una situazione normale, di fronte a un crimine o a un reato, ci sono istituzioni competenti a intervenire, in particolare la polizia, la giustizia, cioè i tribunali. Purtroppo, dopo l’occupazione, questi organi non esistono più a Bukavu, e non ci sono più carceri, né commissariati di polizia. Tutte queste assenze portano una parte della popolazione a commettere azioni di giustizia popolare.

Nella provincia del Sud Kivu, esisteva già, accanto al codice penale, un editto provinciale per arginare la giustizia popolare. Tutti questi progressi sono caduti in disuso a seguito dell’incursione armata dell’M23. Finché non ci saranno istituzioni, finché saremo in questa situazione, si susseguiranno i casi di giustizia popolare. Bisogna davvero che si finisca il prima possibile, che si metta al primo posto l’interesse superiore della popolazione. Anche l’educazione dei bambini e dei ragazzi rischia di essere disturbata: l’infanzia sembra abituarsi a vedere persone uccise e presunti colpevoli subire la giustizia della strada. Finendo per credere che sia normale.

In che altro modo la gioventù è colpita dalla guerra?

Già le Forze armate nazionali, i Wazalendo e altri erano alla ricerca di giovani da reclutare; i loro comunicati chiedevano alla popolazione di favlorire l’arruolamento. Adesso è la volta dell’M23, che probabilmente ha bisogno di nuovi miliziani, a sostituire prima o poi i militari ruandesi che torneranno a casa. Alcuni giovani sembrano pronti ad aderire, altri resistono. La comunità soffre perché non sa cosa dire ai giovani, data la situazione. Il quadro più appropriato, cito la società civile, è quasi inoperante per mancanza di diversi fattori.

Così oggi la gioventù è senza punto di riferimento, senza guida, abbandonata: non ci sono persone che possano orientarla efficacemente per il futuro. C’è un processo di educazione da rifare.

E dal punto di vista scolastico?

Dall’arrivo dell’M23, alcune scuole sono rimaste chiuse. I dirigenti hanno preferito così, a causa dell’incertezza quotidiana, dei traumi, degli allarmi relativi a questo o quell’elemento armato. Diversi alunni sono partiti con i loro genitori verso altre città o all’estero.

In questo periodo, molti slunni vengono espulsi dalla scuola perché i genitori non sono in grado di pagare i contributi richiesti, che servono a garantire gli stipendi degli insegnanti. Sebbene l’istruzione primaria pubblica sia stata dichiarata gratuita, oggi è difficile distinguere le scuole pubbliche dalle scuole private: sembra che tutto sia stato privatizzato, perché i genitori devono svolgere il ruolo che dovrebbe essere svolto dallo Stato, che è assente nelle zone sotto il controllo della ribellione. Così, il numero di alunni e studenti è diminuito, anche a livello delle università.

Si possono quantificare le persone decedute o scomparse a seguito di questa guerra?

È difficile allo stato attuale fare un bilancio dei morti, delle persone rapite, scomparse, sfollate. Ma la situazione rimane allarmante. Oggi, la maggior parte delle organizzazioni della società civile cerca di monitorare la situazione,ma non è poi possibile centralizzare i dati. Al momento opportuno, sarà importante che tutti questi attori che hanno potuto documentare i casi si riuniscano per fare il bilancio. Il sostegno della comunità internazionale sarà allora prezioso. La gente deve sapere che ci sono istituzioni a livello nazionale, regionale e internazionale le quali possono lavorare per garantire una vita degna.

Qual è l’atteggiamento della popolazione di Bukavu?

Ho visto gli abitanti di tre quartieri periferici uscire improvvisamente dalle loro case nel cuore della notte per scendere in strada e protestare contro le violazioni dei diritti umani commesse dall’M23. Penso che occorra gestire e orientare queste azioni, affinché non ci siano eccessi. Chi usa le armi deve capire che le armi non portano mai soluzioni durature. Sono meccanismi non violenti quelli che possono aiutare la popolazione a ritrovare la libertà e la sicurezza.

Qualunque sia l’appartenenza religiosa, la fede sembra avere un forte peso nella mente delle persone…

Io stesso sono cattolico e penso che la fede sia molto importante in questo processo. La Chiesa deve svolgere correttamente il suo ruolo. Ho seguito i discorsi di alcuni prelati cattolici, i messaggi di alcuni leader delle chiese protestanti, di alcuni imam della comunità musulmana, dei braminni: tutto dimostra che le chiese sono stanche di questa guerra. E’ stato proposto un patto per la riconciliazione, dai vescovi cattolici e dalle chiese protestanti: il processo va avanti, ma purtroppo alcune chiese non partecipano.

Se alcune chiese hanno preso una buona iniziativa, è necessario che le altre vi si aggiungano, considerando più l’interesse generale che gli interessi particolari. Il processo avviato dalle chiese si incrocia con i negoziati internazionali: di Nairobi, di Luanda, di Doha, e adesso di Washington. Tutti questi non possono sostituire il processo di pace locale, necessario per trovare una soluzione sostenibile, nell’interesse delle generazioni future.

Cosa può fare la comunità internazionale?

È tempo che la comunità internazionale appoggi i processi di pace individuando con chiarezza gli interessi della popolazione. In effetti, si ha l’impressione che mentre le parti belligeranti lottano circa il contenuto degli accordi, non si vedano affatto gli interessi della popolazione, che non è consultata, e meno che mai le donne e i giovani. Abbiamo bisogno che si metta l’interesse della popolazione al di sopra di tutto, solo così i diritti umani, la pace, la sicurezza, la lotta contro l’impunità possono assumere centralità.

Personalmente, quale via di pace vede?

Nei vari processi iniziati negli ultimi tempi, c’è un aspetto molto importante che non era sempre stato preso in considerazione: quello economico. Ci stiamo rendendo conto che la maggior parte degli attori coinvolti nei negoziati ha anche interessi economici a livello della Repubblica democratica del Congo. Sono d’accordo con il processo che è stato recentemente avviato, perché bisogna che a un certo punto qualcuno dia una via da seguire. Questo stanno facendo gli Usa. Ma gli interessi degli USA non sono quelli dei cinesi; quelli dei cinesi non sono quelli degli abitanti del Qatar, o del Ruanda, o della Repubblica democratica del Congo. La questione della sovranità assoluta non esiste per me: bisogna che ad un certo punto le persone accettino di cedere una parte di se stesse, ma bisogna sapere come cederla, in modo da trovare soluzioni ai problemi che abbiamo

Segnalo poi agli attori della comunità internazionale che la situazione in cui si trova la Repubblica democratica del Congo rimane preoccupante. I processi internazionali non possono trovare da soli soluzioni al problema congolese. Ci vuole una combinazione di meccanismi internazionali e locali per trovare risposte. E non si può sacrificare l’interesse generale all’interesse individuale: occorre un certo numero di consensi in modo da consentire la convivenza.

Precisazione da parte dell’intervistatrice a proposito di quest’ultima risposta.

Confesso che rimango perplessa di fronte a queste «aperture» del mio interlocutore. Vedo i pericoli di fidarsi di «potenti» come gli Stati Uniti e altri, che hanno dichiarato il loro interesse come principio della loro politica estera. Vedo l’ingiustizia di accettare di cedere una parte del proprio paese per far finire la guerra. Ma capisco che dietro queste aperture ci sono decenni di indagini sugli orrori delle guerre in Congo. C’è la delusione di fronte all’unica via giusta ma trascurata: sanzioni internazionali capaci di fermare gli aggressori. C’è la preoccupazione di salvare almeno la vita dei congolesi. Questo è ciò che molti di loro dicono ormai, disperati: «Venite, prendete tutto, ma lasciateci la vita».