A chiunque voglia ascoltare. Da oggi, 10 febbraio 2025, il Liceo Manzoni è occupato.

Noi, studenti e studentesse, con questa azione intendiamo rispondere all’ urgenza collettiva di evadere dalle schiaccianti dinamiche autoritarie proprie del sistema scolastico e, per allargare la riflessione, dell’intera società.

In risposta al paradigma liberticida imposto dallo status quo, scegliamo di mettere in pratica una realtà ideale proprio qui, tra queste mura, nel luogo che attraversiamo tutti i giorni, rendendo gli spazi scolastici luogo di analisi antagonista della società contemporanea e di messa in atto di una nuova modalità di stare insieme, libera da ogni tipo di verticalità, profitto, oppressione.  Quella dell’istruzione è senza dubbio una dimensione inscindibilmente connessa alla società, in quanto suo mezzo di sussistenza, e, data la reciproca influenza di questi due ambienti, va da sé che l’apparato scolastico finisca per non essere altro che una fedele riproduzione delle dinamiche repressive dello Stato.  Agire sulla scuola è dunque un modo per attaccare da dentro il sistema.  In questo senso, le motivazioni che ci hanno spinto a tale azione politica sono da ricercarsi proprio negli sconvolgimenti con cui il Presente ci costringe a rapportarci continuamente. Ci troviamo vittime di una realtà totalizzante, che si abbatte sulle nostre vite attraverso l’autoritarismo sempre più soffocante di una società che non lascia spazio all’autodeterminazione del singolo al di fuori degli schemi imposti.

Sulla base di quanto detto, risulta evidente l’urgenza di creare un’alternativa concreta: ad un’azione prepotente e dispotica, come quella che esercita il capitale, non si può non reagire se non rispondendo con una reazione altrettanto dura e dirompente. L’occupazione è a tutti gli effetti la risposta più appropriata che possiamo dare, in quanto unica forma di rifiuto sistematico che non si limita a una critica fine a se stessa, ma che si spinge oltre, proponendo un modello alternativo costruito collettivamente.

Con questo gesto, tanto forte quanto efficace, ci proponiamo dunque di ripensare il concetto di occupazione come spazio propriamente libero. Spazio in cui viene meno la dimensione della prestazione, della competizione, della prevaricazione, lasciando il posto alla collaborazione tra pari, alla crescita, alla libera espressione di corpi, ideali, rivendicazioni individuali e collettive, alla costruzione di un’informazione intersoggettiva e consapevole. L’occupazione diviene così una dimensione la cui scala valoriale possa finalmente essere dettata dai diretti interessati, gli unici ad avere voce in capitolo, e non da un’istituzione esterna e verticale.

Concretizzare questa libertà ideale è quanto di più impellente, proprio ora che gli strumenti coercitivi del sistema si stanno intensificando in tutte le loro declinazioni.

Non possiamo più ignorare il clima oscurantista in cui la recente svolta autoritaria sta coinvolgendo il Paese; tendenza non solo nostrana, ma globale e coincidente con l’emergere delle destre nazionaliste e neofasciste. La vocazione autocratica, tanto esaltata dal governo Meloni e avviata con la complicità di quelle forze politiche che si ostinano a definirsi “di sinistra”, non ha tardato a concretizzarsi: e vai di decreti anti rave e anti Ong, dl Cutro, dl Caivano, ddl 1660, zone rosse, scudo penale per le forze dell’ordine, immunità parlamentare, inasprimenti penali vari, daspo urbano, zone rosse… Provvedimenti liberticidi come questi portano volutamente allo Stato di polizia: gli spazi pubblici sono militarizzati per garantire “sicurezza”, i manganelli si sono istituzionalizzati contro chiunque provi a contrapporsi ai piani autoritari del capitale, sono colpiti quasi tutti gli ambienti autogestiti di emancipazione e formazione alternativa a quella mainstream.

A questa stretta securitaria, volta a una “pacificazione” del fronte interno, corrisponde per forza il consolidamento di un fronte esterno belligerante, sicché questo esecutivo sta operando in un clima di escalation bellica: il panorama della politica estera, infatti, è dominato da Stati in grado di esprimere una potenza militare e lo scacchiere geopolitico è segnato da guerre delocalizzate rispetto alle nazioni che vi prendono parte. In questo senso, è possibile affermare che quella occidentale è, a tutti gli effetti, un società che si prepara alla guerra: questa è la risoluzione che la macchina capitalista adotta nel momento in cui, nella sua fase più imperialista, non può più tollerare quelle opposizioni e resistenze alle misure che invece promuovono il profitto, foraggiando la conservazione dello status quo. La guerra, infatti, si presenta come la fondamentale opportunità che permette all’apparato economico di ristrutturarsi nei periodi di crisi.

La violenza del meccanismo neo-capitalista si abbatte anche sulla società, sfruttando tutti i mezzi che ha a disposizione: intere fasce di popolazione sono bloccate in una condizione di indigenza strumentalizzata e sempre più difficile da rovesciare, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi. Il malcontento sociale è così innescato, la voglia di riscatto e la rabbia si fanno strada nei cuori delle persone, soprattutto nelle periferie, e questo spaventa chi detiene il potere. Si trova che l’unica risposta al malcontento popolare che lo Stato può dare è la repressione. Vanno repressi il dissenso, l’antagonismo, la marginalità, perché le “manifestazioni di protesta” che urlano contro il patriarcato, il razzismo, la guerra e le fabbriche di armi turbano la sicurezza borghese. Questi dispositivi contribuiscono a creare un clima di dittatura, di guerra interna alla povertà e alle minoranze, di gentrificazione e turistificazione a discapito dei quartieri periferici, sempre più scomodi e marginalizzati. Alla luce di queste considerazioni, l’omicidio di Ramy raccoglie in sè tutte le problematiche della contemporaneità: di fatto, vi sono esistenze che contano meno di altre.

Grazie alle contraddizioni di questo sistema, la società in cui siamo immersi e immerse sta manifestamente implodendo: su scale diverse, la guerra che si combatte con le armi e gli eserciti, e la guerra che si riproduce internamente, attraverso la militarizzazione interna, da parte delle articolazioni dello Stato, hanno la stessa matrice identitaria.

Difatti, è evidente che la vera natura di questo sistema è intrinsecamente legata alla difesa fascista e reazionaria dei privilegi dei ricchi, contro ogni cambiamento o progresso sociale, e alla violenza mirata contro il dissenso. In questo frangente il fascismo è il braccio armato del capitalismo.

Congetturare sugli aspetti del capitale permette di cogliere la complessità della macchina cui la nostra occupazione intende opporsi. Considerando l’evoluzione che il nostro sistema sta subendo, e cioè la trasformazione in un modello di Stato liberale che non si cura più di salvare le apparenze, l’occupazione del proprio istituto si carica di un significato che non si limita alle mura scolastiche, ma anzi le trapassa per ostacolare in maniera decisa le volontà a prima vista granitiche del potere.  Per questo, occupare il Manzoni è per noi molto più della semplice interruzione delle lezioni; rappresenta invece la concretizzazione dello spirito che, a priori, sceglie di non accettare lo stato di cose corrente, ma agisce per combatterlo.

L’assemblea occupante