Si usa spesso la parola genocidio per indicare quanto sta attualmente avvenendo in Palestina per mano israeliana, utilizzando, (per ironia della sorte e della storia), un termine coniato nel 1944 da un avvocato ebreo polacco (Raphael Lemkin) per descrivere le politiche di sistematico sterminio degli ebrei perpetrate dai nazisti.

Si può concordare con tale scelta, ma io credo che ancora non basti. Per descrivere quanto sta succedendo mi pare plausibile che al termine “genocidio” si aggiunga l’espressione “sostituzione etnica”, ad indicare che non si tratta soltanto del tentativo di cancellare una minoranza, come fu nel caso dell’olocausto nazista, ma della volontà di sostituire un popolo o una etnia, che storicamente abita e vive in un territorio, con una di più recente immigrazione.

Capisco come possa apparire strano l’uso di una espressione che gode di grande discredito tra i più seri studiosi ed analisti, essendo associata ad una teoria complottista tipica dei suprematisti bianchi di casa nostra, che con sostituzione etnica, o “grande sostituzione”, pretendono di raccontarci come “… l’immigrazione di massa in Europa non è frutto di un moto spontaneo, ma risponde ad un deliberato piano di sostituzione delle popolazioni europee bianche e di fede cristiana…” (cit. Treccani).

Eppure questo modo di dire (pensiamo anche qui con grande ironia della sorte e della storia) ci pare perfetto per indicare quello che noi occidentali abbiamo fatto (o abbiamo tentato di fare) in cinque secoli di storia del colonialismo in giro per il mondo, di fatto prendendo possesso di terre non nostre e costringendo le popolazioni locali, definite, in modo sprezzante come “nativi”, all’estinzione o più spesso distruggendone l’identità, in termini di storia e di cultura, per poterli schiavizzare, e poi rinchiudere in appositi spazi, comunemente definiti come “riserve”.

Un processo che è stato portato avanti a livello globale e che è spesso arrivato alle sue estreme conseguenze divenendo ormai irreversibile come nelle Americhe ed in Oceania. E se i popoli dell’Asia e dell’Africa si sono salvati dalla “sostituzione etnica”, non è stato per nostra benevolenza, ma per situazioni particolari. In Asia per via delle grandi culture millenarie che preesistevano all’arrivo dello homo occidentalis. In Africa per tante ragioni, tra le quali non ultima (almeno a mio avviso), lo straordinario incremento demografico che ha portato la popolazione a moltiplicarsi di dieci volte in poco più di un secolo (da 120 milioni a inizio del secolo passato agli attuali 1,2 miliardi), come in una sorta di spontanea reazione al tentativo di cancellazione della loro esistenza.

Se interpretiamo in questi termini il rapporto tra Israele e Palestina, capiremo ancora meglio che le attuali vicende non si originano con i fatti del 7 ottobre, ma hanno invece radici profonde nella storia dello Stato ebraico.
Il 1948 è forse la data simbolo che segna l’inizio delle attuali politiche di sostituzione etnica, quando, a seguito della guerra arabo-israeliana, si ebbe l’espulsione, senza possibilità di ritorno dopo il conflitto, dei Palestinesi dalle proprie terre per opera dell’esercito sionista. Un episodio che viene ricordato come nakba, che in arabo significa letteralmente “disastro”, “catastrofe” o “cataclisma”.
Da allora la caccia al palestinese da sradicare dalle sue terre non si è più arrestata, pur assumendo nel tempo forme diverse che possiamo tentare di classificare e riassumere come pratiche di segregazione, deprivazione culturale, genocidio e di recente anche ipotesi di deportazione verso terre altre e lontane.

Il fatto stesso che l’annientamento del palestinese possa essere attuato con mezzi diversi, più o meno violenti, o più o meno subdoli, determina anche l’esistenza di un pluralismo di posizioni politiche all’interno dello Stato ebraico, come può essere dimostrato dalla forte opposizione recentemente cresciuta nei confronti di Netanyahu, del suo governo e a volte anche dei suoi metodi violenti e sbrigativi.
Personalmente, tuttavia, non sono ottimista sulle possibilità di una sostanziale inversione di tendenza nelle politiche di Israele. Anche quando si esprime su posizioni più moderate, tutta la società israeliana è fortemente impregnata dalla idea del diritto di conquista e difesa della “terra promessa”. Ne fa fede il comune sentire. Ne fanno fede i programmi scolastici che di questo mito sono impregnati fin dalle elementari. E d’altra parte non è un caso che lo spirito aggressivo dei coloni è quello che sempre meglio esprime la società israeliana. E neppure è un caso che chi non è allineato, e può permetterselo, preferisce lasciare il paese.

Vi è, in conclusione, un solo elemento di ottimismo possibile, e consiste nel fatto che il mondo, come ha detto qualcuno, è un villaggio globale e quanto succede in Palestina può essere visto e conosciuto in ogni angolo del globo.
Certo non saranno gli Stati, e i governi che li rappresentano, che potranno cambiare l’ordine delle cose, visto che le scelte di geopolitica, per loro stessa natura, sono determinate sempre da interessi parziali ed egoistici e mai da questioni di valore etico. Eppure riteniamo possibile che le immagini di sofferenza, morte e distruzione che ci giungono da Gaza possano scuotere le coscienze dei popoli, come per esempio pare che stia già succedendo nelle tante università americane occupate, in modo da fare maturare nell’opinione pubblica mondiale l’idea che Israele stia portando avanti un progetto, che abbiamo definito, di sostituzione etnica e quindi di annientamento di massa del popolo palestinese.

Solo lo sdegno generalizzato e senza appello, e la mobilitazione di massa a livello globale, possono fermare da subito le mani sporche di sangue dell’assassino. Domani sarà troppo tardi, perché non è vero che la storia è sempre riparatrice. Le tardive considerazioni sulla distruzione, a volte totale, dei popoli vittime del colonialismo occidentale servono a rasserenare le nostre coscienze e a nient’altro.
La Palestina e il popolo palestinese devono continuare a vivere. No al genocidio. No alla sostituzione etnica.