Malgrado la mobilitazione internazionale a suo favore la vicenda che riguarda Julian Assange sembra ben lungi dal trovare soluzione.
L’accanimento delle autorità statunitensi contro il giornalista potrebbe sembrare anche incomprensibile e controproducente rispetto all’importanza e al valore propagandistico che da sempre ha la vecchia retorica che dipinge l’Occidente come culla della democrazia e della libertà. Il fatto è che in questa vicenda in gioco c’è molto di più che una semplice questione di libertà d’opinione.

La libertà di parola, e la sua inflazione sotto forma di “parole in libertà” attraverso i social, sono oggi un aspetto fondamentale dei meccanismi del controllo sociale. Se esprimi dei dubbi sulla guerra in Ucraina o sul massacro di civili e bambini che avviene a Gaza, in genere nessuno te lo impedisce, tranne poi ad essere subissato di accuse del tutto senza senso perché non suffragate da motivate argomentazioni, da parte di chi ti definisce “putiniano” o “antisemita”. La parola, in sostanza, come arma d’offesa e non come espressione di ponderati ragionamenti.

D’altra parte, nel nostro modello occidentale, il puro scontro verbale, spesso su questioni inconsistenti, in quello che qualcuno in passato ha definito “il teatrino della politica”, sembra ormai il luogo privilegiato entro il quale si definiscono i flussi d’opinione che determinano poi anche le preferenze elettorali, in un mondo della politica in cui le vecchie differenze sostanziali tra destra e sinistra sembrano ormai svanite. (Si pensi ad esempio alle grandi vicende della politica internazionale).

Una dimensione in cui produrre discorsi (anche a caso) è fondamentale e la visibilità è tutto. Ed in cui raramente l’esplicita censura di vecchio stampo raggiunge i suoi scopi, come dimostra il recente caso del monologo di Scurati che proprio grazie al diniego da parte della RAI, ha avuto una visibilità e una diffusione altrimenti impensabile.

Assange con tutto questo non c’entra nulla. Il giornalista australiano non ha espresso opinioni da mettere in circolazione nel grande calderone della chiacchiera in libera uscita. Egli, al contrario, ha toccato un punto sensibile di grande importanza per la riproduzione dei meccanismi globali del dominio, e che riguarda l’annosa questione del segreto di Stato, da sempre considerato una eccezione e un limite al principio della libertà d’informazione.

Si tratta di un vero e proprio nervo scoperto, poiché l’idea stessa che possa essere messa in atto una qualche decisione o una qualche azione che si renda necessario tenere nascosta ai propri cittadini sembra una vera inconcepibile assurdità rispetto ai tanto sbandierati valori di trasparenza, libertà e democrazia, che dovrebbero essere i pilastri del vivere civile.

Il segreto svelato, così come avvenuto nel nostro caso grazie al lavoro di Assange, è un’arma micidiale contro l’arbitrio del potere perché mostra che il Re è nudo. Mostra come il senso vero ed originario dello Stato moderno non è il benessere dei cittadini, ma la capacità di sapere gestire con qualsiasi mezzo, lecito od illecito, lo stato di guerra come stato di necessità permanente, sia nel caso del conflitto armato in essere, sia come preparazione al suo prodursi futuro. Lo stesso rispetto dei diritti e i livelli di libertà in ambito domestico sono sempre subordinati agli equilibri e alle esigenze brutali della politica estera.

Assange ha mostrato al mondo come in nome della ragion di Stato ogni crimine diventa possibile. Omicidi, violenze, sopraffazioni, intrighi indicibili e malefatte di ogni sorta, vengono tenuti nascosti e giustificati in nome della difesa dell’interesse nazionale. Un interesse nazionale in cui il disoccupato dovrebbe sentirsi fratello del banchiere e la donna stuprata sorella del proprio violentatore, mentre “l’altro”, colui che sta oltre confine, che sia il bambino ucciso in Palestina o il migrante morto in mare, resta un essere estraneo e senza volto perché appartenente ad un mondo che non ci appartiene.

Non credo che il governo USA perderebbe tempo con Assange per pura rivalsa se non ritenesse il suo lavoro veramente pericoloso, e se non sentisse il bisogno di dovere riaffermare il proprio diritto a gestire i propri interessi senza dovere sottostare ad alcun tipo di limite o di regola.

Da parte nostra invece stare con Assange non è una questione che riguarda la sola difesa dei diritti (che è comunque cosa che resta essenziale), ma anche una messa in discussione della logica della guerra, e della ragion di Stato militarizzata, come soluzione dei conflitti geopolitici, e di converso come moltiplicatore di tutte le forme di dominio anche entro le mura di casa. Ne va della difesa della vita. Quella di Assange innanzitutto, ma anche quella di tutti noi, parte di tanti Stati diversi, ma soprattutto cittadini e cittadine del mondo.