“Generatori per l’energia, lampade, bagni chimici, bombole di ossigeno, tende, abiti che somigliano a divise militari, certi tipi di giocattoli in legno, persino cornetti al cioccolato poiché ‘beni non essenziali’: basta che un prodotto non sia approvato dalle autorità israeliane, a volte magari per la presenza di metalli, che l’intero camion di aiuti venga respinto in Egitto“. Lo denuncia Mutaz Banafa, capo della squadra di supporto umanitario alla Striscia di Gaza dell’Ufficio dell’Onu per il coordinamento dell’assistenza umanitaria dell’Onu (Ocha) con base ad Al-Arish. Il responsabile parla da un parcheggio in Egitto, a pochi chilometri dal valico di Rafah, al confine con Gaza, dove centinaia di migliaia di persone hanno bisogno pressoché di tutto. L’area di sosta è stata messa a disposizione delle autorità egiziane per accogliere camion e autisti. Per raggiungerlo si incontrano file di camion fermi o che procedono a passo d’uomo: 1.500 in totale, 800 solo qui.

Banafa continua: “Ogni giorno entrano cento, anche 200 camion, ieri 180, è un buon periodo. Il problema è che non è costante”. A rallentare – o impedire – gli ingressi, secondo il responsabile Ocha, “ragioni di sicurezza” ma anche “le proteste” di gruppi di attivisti israeliani contrari agli aiuti. Ma è la necessità del governo di Tel Aviv di controllare ogni prodotto che entra a Gaza a creare code che sembrano interminabili. L’Onu ricorda che prima dell’offensiva militare avviata da Israele dopo gli assalti di Hamas del 7 ottobre entravano 550 camion al giorno. Ora a Rafah arrivano senza problemi solo le autobotti di carburante. Per il resto, i camion da Rafah devono raggiungere Kerem Shalom, a circa dieci chilometri di distanza, lato israeliano al confine con Gaza, dove c’è l’attrezzatura per scansionare i carichi. Una parte può essere dirottata anche a Nitzana, sempre in Israele. Resta chiuso invece il valico di Eretz, a nord.

A operare con Ocha, ci sono il Comitato internazionale della Croce rossa, Mezzaluna rossa egiziana e poi, una volta a Gaza, la Mezzaluna rossa palestinese oltre ad altre ong e a Unrwa, “la spina dorsale” della logistica umanitaria. L’iter dei controlli concepito da Israele è però un percorso a tappe complesse che prende tempo e denaro. Questo, sottolinea Banafa, “crea un enorme lavoro logistico, ci vogliono anche cinque o sette giorni per andare e tornare, mentre per i camion in attesa le ong pagano prezzi salati alle compagnie dei trasporti”.

In quest’area di sosta per gli autisti sono stati allestiti servizi igienici, negozi, colonnine per ricaricare i cellulari e una moschea. I conducenti però denunciano: “Dormiamo nei camion e non sempre siamo pagati per le giornate di lavoro in più”. Uno di loro, bloccato da 45 giorni, racconta di ricevere supporto da una organizzazione umanitaria del Qatar, ma “non abbastanza dal governo egiziano”. Dopo questa visita ci spostiamo al centro logistico dove la Mezzaluna rossa egiziana immagazzina le scorte “respinte”. Al lavoro c’è Mohammad Noseer, capo delle operazioni dell’organizzazione. “Presentiamo periodicamente alle autorità israeliane una lista per capire il criterio dei respingimenti ai controlli, ma non riceviamo mai risposta” denuncia Noseer. “Gli oggetti rimandati indietro cambiano sempre”.

Il cibo sembra il bene meno difficile da far passare; più complessi gli oggetti elettronici o in metallo, che vengono considerati potenzialmente pericolosi dai militari di Israele. Pile di scatoloni e forniture imballate raggiungono quasi il tetto: ci sono generatori, ausili elettronici, bagni chimici, depuratori dell’acqua ma anche tanto materiale medico-sanitario come kit di primo soccorso, bombole di ossigeno, sedie a rotelle, persino una incubatrice. Sopra, i loghi delle Nazioni Unite ma anche bandiere di tanti Paesi del mondo. “Siamo al vostro fianco” si legge su un pacco proveniente dal Kuwait. “Una volta respinti i materiali vengono riconsegnati e si contatta il donatore che li ha mandati” dice Noseer. “Si riproverà a farli entrare”.

C’è invece un “corridoio veloce” per le merci di aziende private, che alimentano poi il mercato nero, con prezzi maggiorati perché a Gaza manca tutto. All’agenzia Dire Meri Calvelli, dell’Associazione di cooperazione e solidarietà in Palestina (Acs), dice: “È probabile che parte di queste forniture saranno rivendute, anche se non è chiaro chi lo faccia; ci sono poi tasse di pedaggio da pagare alle autorità egiziane, che consumano i fondi raccolti dalle ong“. Secondo Calvelli, “c’è chi sta speculando moltissimo su questa crisi”.

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