Nel 2017 il Gruppo Riva, caratterizzato dalla logica di “governance familiare” tipica di una fase dell’industria italiana, ha chiuso un complicato contenzioso con l’Amministrazione straordinaria dell’ILVA con l’intervento della Procura di Milano e ha trasferito 1,230 miliardi di Euro da destinare alle bonifiche delle aree vicine allo stabilimento di Taranto.

Il 31 maggio 2021 il Tribunale di Taranto ha emesso la sentenza di primo grado nell’ambito del processo “Ambiente Svenduto” relativo alla gestione dell’Ilva da parte del Gruppo Riva fino al 2013. Sono state emesse le condanne rispettivamente a 22 e 20 anni di carcere per i fratelli Fabio e Nicola Riva, ex proprietari ed amministratori dell’azienda, e di 3 anni e mezzo per l’ex Presidente della regione Puglia Nichi Vendola. Le imputazioni contestate dalla Procura della Repubblica e riconosciute dal Tribunale erano relative a reati di disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, contestati dai magistrati alla gestione Ilva da parte del gruppo Riva. Dopo un anno e mezzo sono state emesse le motivazioni della sentenza.

L’attività produttiva del gruppo è principalmente concentrata in acciaio e derivati. Lo stabilimento di Taranto, nato per produrre oltre 10 milioni di tonnellate/anno, si è progressivamente portato su una produzione pari, nel 2022, a 5,70 milioni di tonnellate di acciaio grezzo, per chiudere il 2023 con meno di 3 milioni di tonnellate.

A Taranto la tensione sociale è altissima. I fornitori hanno fermato le attività, gli autotrasportatori stanno effettuando il blocco dei cancelli, le aziende dell’indotto vantano crediti per centinaia di milioni di euro, che non possono riscuotere con le banche perché è tutto congelato nell’attesa che un qualche governo sblocchi la situazione. Si teme un’altra amministrazione commissariale dopo il commissariamento del 2015 che aveva portato alla perdita di centinaia di milioni di euro in tutto il settore dell’indotto.

La storia dell’Ilva è piena di buchi neri. Pochi hanno guardato la questione dal punto di vista delle persone che vivono la quotidianità della città, facendo le cose che si fanno tutti i giorni, dal fare la spesa in negozi con gli scaffali pieni di polvere rossa al portare i bambini a scuola dove anche i banchi sono ricoperti di polverino di carbone. E i giochi all’aperto dove i bambini e le bambine devono giocare in giardini bruciati dalle ceneri tossiche e cancerogene, nei quartieri adiacenti allo stabilimento che ormai sono a loro preclusi. Ma oltre ai banchi ricoperti di polverino, che cosa viene o verrà riportato nei loro sussidiari o libri di scuola, e cosa rimarrà nella loro memoria a proposito dello sviluppo della terra di Puglia e delle loro prospettive di vita, in un contesto così degradato? I giovani hanno imparato a riconoscere il “mostro” sfidando anche le scelte discutibili e sofferte dei loro padri disposti a sacrificare la propria esistenza in cambio di occupazione e/o forse anche di consenso politico. Possiamo immaginare il dramma dei genitori che scoprono che i loro figli, perfino prima di nascere, hanno già incarnato la malattia.

E ancora, ripescando dal buco nero dell’Ilva, la storia del reparto di confino allestito negli anni Novanta dai nuovi proprietari dello stabilimento. La “Palazzina Laf” racconta una vicenda di mobbing collettivo: nell’edificio in disuso finivano, a non fare nulla, operai, impiegati e quadri, nonché sindacalisti interni, tutti giudicati per qualche ragione scomodi, riottosi o pericolosi per gli obiettivi della proprietà, come ben ricordato nel lavoro cinematografico di Riondino. Il film si ispira a fatti realmente accaduti e documentati in uno dei primi processi italiani per mobbing, che si concluse nel 2006 con la condanna di undici imputati, fra cui il presidente del Consiglio di amministrazione, Emilio Riva, e il direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso. Nel reparto di confino venivano mandati tecnici che dissentivano sull’organizzazione del lavoro in fabbrica, come pure operai sindacalizzati o più consapevoli di altri che lottavano affinchè “la fabbrica dell’acciaio” smettesse di mietere vittime.

Quale futuro quindi per l’ex Ilva? Senza un rilancio industriale su basi sostenibili non ci sarà nessuno stabilimento e tantomeno la decantata “transizione ecologica”. La cassa integrazione in deroga per tutti i lavoratori non può essere la soluzione, in assenza di una prospettiva. Serve restituire la dignità del lavoro dopo anni di arretramento di diritti, peraltro anche costituzionalmente garantiti.

Si parlava, più sopra, di una soluzione che si sarebbe potuta trovare nelle cose stesse, al netto dell’interesse strategico per il settore dell’acciaio non solo per il paese Italia ma anche per la dimensione europea. Ma ad oggi non sembra che la strategia nazionale si possa interessare di Taranto, in quanto è notizia di questi giorni un rinnovato interesse per il rilancio dell’acciaieria di Piombino da parte del gruppo ucraino Metinvest e dell’italiana Danieli, che scendono pubblicamente in campo nella partita delle acciaierie di Piombino. Perché parlare di “strategia nazionale” quando per la ex Ilva, c’è un immobilismo che perdura da anni?

Occorrerebbe allora imboccare la strada della bonifica di tutta l’area dai veleni stratificati, e procedere alla riconversione dello stabilimento in modo sostenibile, con tecnologie non impattanti sul territorio, che peraltro già esistono in molti paesi europei. Taranto rischierebbe altrimenti di pagare un prezzo troppo alto, perché dopo essere stata città avvelenata si troverebbe ad essere esclusa dalla produzione di acciaio green, quando potrebbe essere hub di sviluppo interamente sostenibile.

Per questo occorrono finanziamenti, tanti finanziamenti: sarà in grado questo governo di sciogliere il nodo gordiano?

Alleghiamo questo link per chi volesse approfondire L’argomento.

di Stefania Susani e Michele Puerari