Sullo stabilimento siderurgico dell’ex ILVA di Taranto, oggi Acciaierie d’Italia tanto è stato detto, tanto è stato scritto, ma poco è stato fatto negli anni, sia per la salvaguardia sia dei posti di lavoro, sia per la questione del grave inquinamento ambientale prodotto dai depositi a cielo aperto di materiale carbonioso e dai residui delle lavorazioni, che tanto danno hanno provocato alla salute della popolazione nonché dei lavoratori ivi impiegati. A questo proposito si sono confrontate, ma anche scontrate nel tempo, diverse concezioni di pensiero, tanto che ora si può parlare di un sedimentato pensiero polivalente, che trae origine dalle richieste della cittadinanza e delle associazioni ambientaliste per la difesa del diritto alla salute, dalle rivendicazioni delle organizzazioni sindacali in difesa del posto di lavoro, in una regione che ha visto e vede ancora una forte emigrazione, nonché dalle mai sazie avidità padronali di accumulare sempre più profitti a scapito di tutto, fino alle inconcludenti politiche industriali perpetrate dai vari governi che nel tempo si sono alternati, che hanno consentito che la situazione si aggravasse sino al punto di non ritorno.

Pare che, così come si sono sedimentati gli strati di carbone nel territorio, anche i pensieri e i problemi intorno alla fabbrica abbiano trovato un loro modo di stratificarsi nell’immobilità di ricerca di soluzioni possibili. Di questo pensiero polivalente possiamo indicare alcuni spunti focali, utili per la discussione:

  • Per l’EX ILVA si può ora osservare un sentimento di rassegnazione e preoccupazione che pervade i lavoratori occupati nello stabilimento (circa 8000) e il numeroso indotto che lavora e vive intorno alle commesse dell’azienda, per l’empasse che si è venuto a creare con l’uscita di scena dell’ARCELOR MITTAL, la società franco indiana che deteneva la maggioranza delle azioni (62%), e che nel tempo non si è mai assunta gli impegni di rilancio delle attività che l’accordo con il governo gli assegnava.
  • La consapevolezza ormai consolidata nella cittadinanza, che il problema della salute e della salvaguardia ambientale è ormai ineludibile, e questo è anche stato confermato dalle sentenze del tribunale di Taranto che ha disposto il blocco di alcune tra le lavorazioni  più nocive.
  • In una fase precedente abbiamo assistito ad una strenua difesa del lavoro da parte delle organizzazioni sindacali confederali, con la cittadinanza divisa in due fazioni in conflitto tra loro, tra chi appoggiava la lotta operaia e chi rivendicava il diritto a non ammalarsi. Posizione questa che col tempo, e le morti che hanno continuano a succedersi sia in fabbrica che nel territorio, è diventata maggioritaria.
  • Non è solo lo stabilimento di Taranto che rischia di morire per consunzione: anche nel Nord Ovest, da Novi Ligure in provincia di Alessandria all’acciaieria di Cornigliano a Genova, fino a Vado Ligure nel ponente, esiste una teoria di medio-piccoli stabilimenti, con diverse migliaia di lavoratori occupati, che vivono sull’acciaio prodotto a Taranto e che ora sono in cassa integrazione da anni.
  • Si è potuto perciò parlare di nodo gordiano inestricabile e insolubile tra interessi contrastanti così fra loro intrecciati, mentre la soluzione che si sarebbe potuta trovare stava nelle cose stesse, posto che l’interesse strategico per il settore dell’acciaio, non solo per il paese Italia ma anche per la dimensione europea, ha trovato sempre maggiori consensi.

La situazione che si presenta oggi si può rappresentare come un corpo unico, la fabbrica embricata con la città, a cui deve essere amputata qualche sua parte per continuare a sopravvivere adattandosi ai cambiamenti imposti dalla transizione ecologica che inevitabilmente riguarda anche Taranto.

La transizione ecologica è oggi al centro dell’agenda della politica. La crisi ambientale ha spinto l’Unione europea ad assumere l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050 e a promuovere iniziative utili a favorirne i passaggi necessari e la decarbonizzazione della produzione economico industriale. Si tratta senza dubbio di un programma di radicale riconversione tecnologica, energetica ed economica. Ma altrettanto profonda e onerosa sarà la trasformazione sociale.

Ma è possibile “decarbonizzare” l’acciaio e che cosa significa per il lavoro, la vita dei tarantini, la città? E restano irrisolti i nodi delle bonifiche, dell’inquinamento e degli impatti sulla salute.

Per ulteriore chiarezza è necessario fare un breve sunto degli avvenimenti accaduti negli ultimi decenni, come si può desumere da una lettura su una qualsiasi enciclopedia on line.

L’ILVA nasce nel 1988, quando le Partecipazioni Statali del Ministero dell’Industria decidono di privatizzare la Italsider, azienda di Stato del gruppo IRI, a favore della famiglia Riva, capitalisti del settore siderurgico, che dopo aver cominciato col commercio in rottami ferrosi, è riuscita a creare un impero dai piedi di argilla con sede nelle scatole cinesi dei paradisi fiscali dei Caraibi.

Nel 2012 l’ILVA di Taranto, che si dedicava alla produzione di acciai piani da ciclo integrale, è stata coinvolta in una indagine che ha portato al sequestro dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto dell’ILVA per ipotesi di disastro ambientale e avvelenamento di sostanze alimentari.

L’ILVA veniva perciò commissariata, di fatto espropriata e, dopo la dichiarazione di insolvenza del 2015, a seguito di un biennio in Amministrazione Straordinaria, ceduta in affitto al Gruppo Arcelor Mittal, con opzione di acquisto al termine del periodo di affitto.

… continua

di Stefania Susani e Michele Puerari