Guido Bissanti è tra i fondatori e principali attivisti di Agroecologia. Ci rivolgiamo a lui per comprendere meglio l’attuale protesta degli agricoltori di tutta Europa.

Può descriverci, innanzi tutto, la natura e gli scopi della sua associazione?

Il Coordinamento Agroecologia Sicilia è un’organizzazione, senza fini di lucro, che si prefigge la promozione dell’agroecologia, in ambito regionale, nazionale ed europeo, nonché la salvaguardia della biodiversità, degli habitat e delle risorse naturali.
L’agroecologia è un nuovo modo di intendere ai sistemi di produzione del cibo e di altri servizi ecosistemici nonché ai rapporti ed equilibri con le persone e le loro organizzazioni.
È una scienza in divenire, che affonda le sue radici in molte conoscenze ed esperienze del passato, ma suffragata sempre più da una ricerca scientifica a dimostrazione che si può produrre meglio e di più, salvaguardando gli ecosistemi.
Inoltre l’agroecologia consente un riequilibrio delle dinamiche sociali e territoriali divenendo così anche un obiettivo  politico.
Purtroppo, come tante innovazioni della storia, non è ancora ben compresa e, in generale, quasi sconosciuta, anche se in tutto il mondo (come in Italia) le aziende che applicano i principi dell’agroecologia sono in costante e progressiva crescita.

La concezione di un’agricoltura rispettosa della natura e dei suoi equilibri, legata anche ad una scelta alimentare non sofisticata, il rifiuto delle coltivazioni industriali e degli allevamenti intensivi si sposano in qualche modo con la protesta degli agricoltori di questi giorni?

Nell’attuale scenario in rapida evoluzione assistiamo (ed era ora) alle proteste degli agricoltori che sono la conseguenza di un progressivo appesantimento dei loro obblighi e pesi economici provocati dallo sviluppo di quella agricoltura (nata soprattutto con la Riforma degli anni ’60) che ha progressivamente fatto uscire dai cicli naturali il modo di produrre cibo, dovendo correggere, col passare del tempo, questa anomalia con l’uso crescente di pesticidi, fertilizzanti di sintesi, input esterni.
L’Unione Europea, negli ultimi tempi ha compreso che in questa direzione non si poteva andare oltre, producendo una serie di regole, prescrizioni ed obblighi (tramite la PAC) che non sono seguiti ad un’attenta formazione degli agricoltori.
Così quella che dovrebbe essere la transizione ecologica del settore agricolo, attraverso il Green Deal, diviene praticamente solo una serie di mere imposizioni ma non un sistema di affiancamento a questa necessaria ed inderogabile transizione.
Le proteste degli agricoltori nascono ovviamente, non tanto contro il Green Deal, che di fatto (con le sue strategie Farm to Fork e Biodiversità 2030) non è ancora partito, ma contro quel crescente disagio che la stessa agricoltura industriale ha indotto nelle persone (agricoltori e consumatori) e nella natura. Non dimentichiamoci che l’agricoltura così detta “specializzata” contribuisce ai processi di desertificazione planetaria (perdita di biodiversità, inaridimento dei suoli, perdita qualitativa e quantitativa delle risorse idriche).

L’Europa Unita risponde al movimento dei trattori proponendo di reintegrare l’uso dei pesticidi. Quanta cecità c’è in questa soluzione? E quanta negazione della devastazione ambientale irreversibile che stiamo provocando?

Purtroppo, come al solito, il nuovo (il Green Deal) rischia di divenire il capro espiatorio, mentre questo rappresenta l’unica via per far transitare l’intera civiltà verso una nuova dimensione di equità e giustizia.
Si ha la sensazione che contro il Green Deal (come succede soprattutto in Germania) si siano attrezzati da tempo i soliti noti (multinazionali, finanza) che hanno molto da perdere da un sistema produttivo che, progressivamente, (che lo vogliamo o no) abbandonerà gli input esterni (fertilizzanti di sintesi, diserbanti, ecc.).

Gli agricoltori che non hanno iniziato il percorso agroecologico protestano perché non vedono né un futuro né una via d’uscita a questa crescente crisi (annunciata da anni). Ironia della sorte è che un blocco del Green Deal provocherebbe un ritardo del processo di transizione con un aggravio ecologico ed economico per l’intera Europa, riproponendosi la sua necessità, in maniera più pressante (e non sappiamo quanto efficace) nei prossimi anni.
Mentre la scienza dimostra che è proprio l’agricoltura specializzata a cambiare gli equilibri (biocenosi) di interi ecosistemi, richiedendo un uso crescente di correttivi (insetticidi, diserbanti, ecc.) ai feedback messi in atto dalla natura (aumento di patologie fungine, insetti fitofagi, ecc.), l’ignoranza di una parte della politica e dell’opinione pubblica chiede di reintegrare proprio quei pesticidi che hanno visto, dagli anni ’60 in poi, e con crescente utilizzo, lo strumento di progressiva diminuzione della biodiversità (sia agricola che naturale), con perdita dell’efficienza e della produttività dei sistemi agricoli e in un circolo vizioso che, così continuando, non ha via d’uscita, con ripercussioni anche sulla efficienza dei sistemi sociali ed economici.

L’ipotesi di richiesta di un ritorno a questo buio passato, con l’inversione di quella graduale conversione che sta iniziando col Green Deal, è quanto di più illogico (e per certi versi oscurantistico) da un punto di vista scientifico e, ovviamente, politico.

In un’epoca di globalizzazione concorrenziale, di concentrazione del controllo della produzione e della finanza entro le sigle di poche multinazionali, che spazio – e che speranza – resta a chi pratica un modello di coltura ma anche di vita alternativo alla sconsiderata crescita illimitata?

Per ovviare ad una  possibile catastrofe storica, bisogna far comprendere a tutti noi che la civiltà che aveva fondato le sue certezze sulla crescita illimitata, sul capitalismo senza regole e sui mercati, dominati da poche multinazionali, è oramai alla fine. Non significa la fine della civiltà ma di questo modello di civiltà.
La natura, con i suoi equilibri, i suoi principi e le sue regole (di cui l’agroecologia è una parte) ci dice (e lo fa scientificamente, quindi con dati certi) che esiste un modo alternativo di vivere. Un nuovo modo di concepire il benessere, che non è quello della rincorsa di una ricchezza fittizia per il soddisfacimento di bisogni spesso fittizi.

Gli agricoltori, con il loro malessere, con le loro proteste, rappresentano l’inizio della fine di un vecchio mondo. Adesso tocca a noi fare buona informazione e, soprattutto, creare un movimento di opinione che richieda un concreto Green Deal che assista ed affianchi agricoltori e consumatori (quindi tutti noi) a questo cambio di passo. La negazione di questa unica prospettiva è il diniego della stessa civiltà futura.