Martedì 9 gennaio 2024 all’Istituto per gli Studi Filosofici di Napoli si è aperto il tour in varie città italiane di Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU per i Territori Palestinesi Occupati, per presentare il suo ultimo lavoro, scritto con il giornalista Christian Elia e la filosofa Roberta de Monticelli. Il libro si propone di fare chiarezza sull’ultima drammatica deflagrazione del conflitto tra Israele e il popolo palestinese che sta lacerando il Medio Oriente e il mondo intero.

J’accuse, questo il suo potente titolo, promette di descrivere compiutamente gli accadimenti delle ultime settimane in terra palestinese, in un momento in cui la repressione israeliana sembra superare qualunque possibile previsione. “La verità innanzitutto”, come recitava l’indimenticato esordio dell’articolo di Emile Zola a difesa di Alfred Dreyfus, è l’affermazione con cui la Albanese apre il suo instant book, che sta raccogliendo l’attenzione di migliaia di italiani, desiderosi di comprendere da dove viene e come si esce da una carneficina senza precedenti, una sorta di guerra lampo contro un popolo totalmente indifeso, che viene massacrato, giorno dopo giorno, nella sua marcia verso il miraggio della salvezza, dopo ben 57 anni di occupazione e di illegali prevaricazioni.

I fatti sono ormai noti a tutti. Il progetto di evacuazione forzata dei territori palestinesi occupati dopo la “guerra dei sei giorni” (1967), che la destra israeliana più radicale caldeggiava da tempo, ha trovato in Hamas l’ideale catalizzatore, il casus belli che mancava. Una coincidenza attesa, prevedibile, provocata. La sanguinaria sortita armata di Hamas del 7 ottobre 2023 ha procurato centinaia di vittime civili e militari in più punti del territorio israeliano e 250 persone prese in ostaggio. Un colpo durissimo per la mitica “intelligence” di Tel Aviv, messa sotto scacco da un gruppo di uomini determinati e sostenuti da una coalizione policroma. Con questa azione, terribile e improvvisa, Hamas ha inteso sfidare e battere l’esercito di Israele con i suoi stessi metodi, con le armi e la contrapposizione totale, come recita il suo programma politico. A quel punto, l’attesa reazione israeliana ha superato, com’era facile prevedere, ogni immaginazione, eliminando, nei primi 100 giorni, almeno 30.000 palestinesi (oltre a 7.000 dispersi che restano sotto le macerie degli edifici di Gaza) tra cui quasi 10.000 bambini. Un pogrom al contrario, si potrebbe dire, a dimostrare che la violenza genera solo altra violenza e la guerra genera altra guerra. Da Erode a Nethanyau, sembra essere passato un istante.

In questo bollettino di notizie tragiche che la tv e i media recitano senza sosta da tre mesi, J’accuse prova a mettere ordine, con un metodo e un linguaggio semplice e comprensibile a tutti, seguendo lo schema domanda-risposta tra gli autori, che ha una valenza comunicativa indiscutibile, usando come faro il diritto internazionale e le sue “carte”, troppo spesso ignorate. E’ giunto il momento di riprendere l’insegnamento della Shoah e ritrovare la volontà delle generazioni precedenti. Albanese chiarisce senza esitazioni il suo credo: o si torna al rispetto del Diritto internazionale e la Pace prenderà forma, o la barbarie della legge del più forte tornerà a dominare la scena internazionale, riportando indietro di un secolo l’orologio della storia, perpetuando l’alternanza di guerra e tregua.

Per noi del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, da sempre abituati a semplificare il rigore del linguaggio giuridico per spiegare concetti di Diritto universale, questo libro appare come uno straordinario e inatteso dono, uno strumento di lavoro utilissimo per parlare di storia moderna ai giovani, agli studenti medi e universitari e raggiungere la mente e il cuore del lettore meno informato, di chi non è cresciuto, come chi scrive, nel racconto dei bombardamenti, dei rifugi, degli sfollamenti, della fame della Seconda Guerra Mondiale.

Bisogna ammettere che da tempo la politica italiana aveva messo in soffitta la storia del popolo palestinese, ignorando le condizioni di soggezione e apartheid in cui vivono da decenni milioni di persone prigioniere, nella striscia di Gaza e nella Cisgiordania, costrette a subire una giurisdizione militare indegna di un’occupazione che dura da decenni. L’occupante, a rigor di norma, dovrebbe assicurare parità di condizioni tra i due popoli e garantire assistenza e servizi alla popolazione occupata e un ambiente dignitoso per la crescita dei bambini.

In tal senso, Francesca Albanese attinge a piene mani, nella stesura del libro, ai tre rapporti che ha pubblicato nei venti mesi in cui ha sostenuto l’incarico di Relatrice Speciale, con particolare riguardo alla necessità di autodeterminazione del popolo sottomesso e alle condizioni di unchild (infanzia negata) in cui crescono i piccoli palestinesi. Infatti l’ultimo rapporto, pubblicato pochi giorni dopo il 7 ottobre, analizza con ricchezza di dettagli le condizioni di sofferenza in cui si sviluppa l’infanzia dei palestinesi e le umiliazioni, i traumi e le violenze fisiche e psichiche che sono il corredo di ogni bambino di Gaza o della Cisgiordania.

Bambini immersi in un conflitto continuo, corpo e mente, oggetti di ricatto e di condizionamento dei loro genitori, bambini violati e negati, magistralmente raccontati nel film Due bambini al giorno dell’israeliano David Waschmann, che a novembre avevamo presentato alla XV edizione del nostro Festival a Napoli, su indicazione della stessa Albanese. La quale racconta la terribile “violenza epistemica” con cui si esercita il potere dell’occupante, attraverso le parole e il linguaggio quotidiano che esclude categoricamente la parità dei diritti tra i due popoli che dovrebbero convivere in pace e non ci sono mai riusciti in assenza di reale volontà politica. Questa figura concettuale riassume in sé la “normalizzazione” della violenza del linguaggio che ha prodotto, nei fatti, la banalità del male che ha caratterizzato l’occupazione infinita che gli israeliani hanno inflitto ai palestinesi, e che impone due sistemi giurisdizionali (uno, civile, per gli occupanti, l’altro, militare, per gli occupati) senza alcuna parità di condizioni. Che sarebbe il pre-requisito di qualsiasi ipotesi di pace.

Il concetto di violenza epistemica sottolinea una volta di più la contraddizione tra Politica e Diritto che domina la questione mediorientale, l’indifferenza della politica per la vigenza dei Diritti Universali, lo scherno con cui politici e militari ignorano e cancellano dal linguaggio i termini della Carta dei Diritti e quindi un intero popolo che ha la sola colpa di essere il più debole.

Il libro, infine, esamina i concetti basilari della vita civile che, come ben sappiamo, sono praticati dalla “più grande democrazia del Medio Oriente” esclusivamente per i propri cittadini. Terrorismo, Disumanizzazione, Colonialismo, Apartheid, Carceralità sono i capitoli più toccanti di questa disamina senza sconti, i sensori con cui l’autrice misura l’assurdità dell’occupazione infinita e del razzismo anti palestinese. Ed è proprio il diritto internazionale a fare da guida nell’esame degli abusi, delle contraddizioni, persino nel prospetto delle possibili soluzioni.

Francesca Albanese non chiude la porta alla speranza, ribadisce solo che oltre il Diritto (il tanto vituperato Diritto…) non c’è che la guerra, la legge del più forte. E questo è un messaggio chiaro alla Politica. Su questo dobbiamo interrogarci tutti perché il Diritto non è un’utopia, ma un obbligo morale anche per la società civile, una scelta già fatta molti anni fa. E qui il profilo dell’Europa di oggi esce molto ridimensionato, svilito dalle sue scelte senza coraggio, allineate alla politica dei blocchi.

Ma ritengo che il libro sottenda due domande ancora più grandi circa la tragedia mediorientale. La prima riguarda l’ONU e può sembrare retorica, ma non lo è: ha ancora senso riconoscersi nella missione dell’organizzazione che dovrebbe tutelare la pace globale, o quel sogno è svanito? O siamo noi che non sappiamo/vogliamo adattarlo alle necessità di un mondo che non è più riconducibile a due blocchi di potere? E’ stato facile tradire e ignorare le risoluzioni dell’ONU dopo il vertice di Cancun del 2010, dopo che gli USA hanno condannato l’ONU alla marginalità, ma oggi i frutti avvelenati di quella scelta tornano a tormentarci e nuove guerre sono all’orizzonte. La crisi di quel modello occidentale è ormai evidente.

L’altra domanda, apparentemente meno urgente, ma altrettanto importante, impegna la nostra coscienza. Dato che l’esame della questione palestinese, come questo libro dimostra, è un impegno oneroso che richiede molteplicità di competenze ed esperienze, dobbiamo chiederci se noi italiani e europei stiamo costruendo le figure professionali che potrebbero garantire in futuro la difesa della Pace, del Diritto Universale, dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani davanti alla legge e al potere dei governi e delle istituzioni. In una parola, sapremo insegnare ai nostri figli la Cultura della Pace?

Su queste due domande dovremo mettere alla prova la nostra fiducia nel futuro e adoperarci per costruire sistemi di educazione all’altezza dei problemi che ci circondano, come queste crisi militari e politiche che il mondo globalizzato ha reso ineludibili.

E proprio tentando di dare una risposta a questi quesiti, mi tornano alla mente due agenti di Pace caduti sul percorso della ricerca del senso dell’umano: Vittorio Arrigoni e Mario Paciolla, due giovani indomiti che non abbiamo saputo difendere. Le loro storie ci interrogano silenziosamente.

Non mi resta che auspicare che, ispirandoci all’ONU, una ONU dei popoli e non solo degli Stati e dei governi a cui dovremmo mirare, e impegnandoci per costruire condizioni di serena convivenza, con il lavoro incessante di persone come Francesca Albanese, e come furono Vittorio e Mario potremo ritrovare il filo di un discorso avviato dai nostri padri e drammaticamente interrotto negli anni 90, sull’onda della caduta del Muro. E’ questa, lo penso davvero, la nostra missione.

E questo libro, e il felice coraggio della sua autrice, ci autorizzano a sognare di nuovo a occhi aperti.