Periodicamente ci scorrono davanti agli occhi le cifre disastrose della nostra sanità pubblica. Qualche giorno fa La Stampa denunciava la situazione proponendo alcune statistiche significative, che esplicitavano come ormai una quota crescente di popolazione, sempre più vecchia,  è costretta a dirottare buona parte del proprio bilancio verso la spesa sanitaria o peggio, cosa ormai nota, non riesce nemmeno a  curarsi a causa delle liste d’attesa, al ridursi del potere d’acquisto dei salari e delle retribuzioni. A conferma della gravità della situazione, il prossimo rapporto Crea evidenzia che le famiglie che hanno accusato un disagio economico a causa delle spese sanitaria erano il 4,7% nel 2019, salite al 5,2 nel 2020; ora la percentuale è del 6,1%, equivalente a un milione e 580 mila nuclei familiari, mentre per l’Istat il 7% della popolazione ha rinunciato completamente a curarsi.

Anche le Marche sono lo specchio di ciò che accade nel Paese, frutto di politiche che in questi anni hanno massacrato la sanità pubblica. Un dato del 2021 indicava nell’11,3 la percentuale dei marchigiani costretti a rinunciare alle cure mediche perché impossibilitati a rivolgersi a strutture private, a fronte di una sanità pubblica sempre più ridimensionata; basti pensare alla chiusura, in pochi anni, di tredici ospedali, in nome di una razionalizzazione discutibile, alla quale ha fatto seguito una politica di centralizzazione. Sono state queste le scelte portate avanti dalle varie giunte di “centro-sinistra” che si sono succedute al governo regionale nei decenni. Una politica che oltre a favorire le aziende profit –  la parte del leone spetta al Gruppo Kos di Carlo De Benedetti – ha usato la mannaia tagliando a più non posso e continua a farlo, visto che proprio qualche giorno fa il Carlino ha annunciato che il bilancio di previsione per il 2024 prevede la riduzione di ben 148 milioni di euro, dato negato il giorno dopo dal Presidente Acquaroli, ma senza indicare cifre  attendibili che potessero smentire la notizia.

E l’attuale giunta regionale, targata FdI, che nel 2020 ha rotto l’egemonia Pd, continua a premiare i privati, anche se dopo gli anni di centralizzazione ha ripristinato le cinque Aziende territoriali. Ma al di là dell’assetto organizzativo, la sostanza non cambia: anche nella nostra regione curarsi senza esborso è oramai un’ardua impresa, tenendo presente anche  i tagli agli organici e il mancato rimpiazzo del personale che va in pensione. Recentemente l’Usb ha denunciato che mancano all’appello settemila operatori tra medici e infermieri; le aziende più colpite da questa carenza e con il maggior numero di precari risultano essere l’ospedale regionale di Torrette e l’AST di Ascoli Piceno. Sempre l’Usb denuncia come “la Corte dei conti Marche nella sua relazione rispetto al 2022 ha evidenziato che riguardo al tetto di spesa per il personale la Regione Marche ha utilizzato 12 mln di euro in meno”.

Dal canto suo la Cgil commentando sempre il rapporto della Corte dei Conti del 2023 denuncia che la spesa sanitaria pro capite nelle Marche è di 2.190 euro, al di sotto della media nazionale (2.241 euro pro-capite) e sotto la media delle Regioni del Centro Italia (2.270 euro pro-capite). Nelle Marche la spesa rendicontata a consuntivo ammonta a circa il 36% del totale del finanziamento (12,8 milioni di euro), valore molto limitato e nettamente inferiore al Centro (57%) e all’Italia nel suo complesso (70%). Insomm, anche la giunta “patriottica e tricolore” taglia senza remore, nonostante la stessa vicenda del Covid abbia messo a nudo le deficienze della nostra sanità, qui come altrove.

Di fronte a un quadro così inquietante ci sarebbe bisogno di un’efficace risposta dal basso, ma purtroppo una mobilitazione che possa costringere a un’inversione di tendenza non si vede.  Nel 2018 contro la chiusura dei piccoli ospedali e una legge regionale che andava ulteriormente a favore dei privati (poi ritirata), si mobilitarono alcuni comitati locali riunitisi provvisoriamente in rete; nell’anconetano si formò un “Forum provinciale per la sanità pubblica”, si tentò di mettere in piedi un coordinamento marchigiano stabile,  ma tutto durò pochi mesi a causa di logiche localistiche sul fronte comitati e delle oggettive difficoltà a coinvolgere il personale interno, sottoposto al ferreo regolamento della pubblica amministrazione.

In ogni caso nonostante il contesto così complicato, rimane l’impegno di alcune associazioni di base che da anni denunciano le politiche sopra riportate. Tra queste in prima fila c’è il “Gruppo Solidarietà” di Maiolati Spontini, paesino vicino a Jesi, in provincia di Ancona.

Nato nel 1979 sulla questione delle disabilità, ha gradualmente allargato le proprie attenzioni alle politiche sanitarie in generale, seppure il lavoro centrale svolto sia fortemente focalizzato sulla disabilità e l’assistenza alla popolazione anziana.

Fabio Ragaini, referente dell’associazione sottolinea come “soltanto con riferimento alla condizione di “non autosufficienza” nell’età anziana – una definizione alquanto generica che ricomprende situazioni con necessità sanitarie e assistenziali molto diverse – se analizziamo anche grossolanamente il rapporto tra domanda e offerta vediamo una distanza straordinariamente alta. Il deficit non è solo quantitativo, ma anche qualitativo. Dato quantitativo: sono circa 45.000 le persone con più di 65 anni che ricevono l’indennità di accompagnamento e con necessità di assistenza continuativa. L’Istat ci dice che se ne possono aggiungere altre 20.000 in condizione di non autosufficienza.

La Regione Marche indica in 35.000 il numero di persone con demenza. Ricevono assistenza domiciliare comunale circa 1.500 anziani (non sappiamo per quante ore settimanali); 600/700 accedono a Centri diurni, ma non sappiamo con quale frequenza (tempo pieno, tempo parziale?); circa 4.000 ricevono un sostegno economico (da 200 a circa 350 euro al mese, a seconda della tipologia di sostegno). Ci sono poi i servizi di cure domiciliari (che non riguardano solo gli anziani), che raggiungono il 2/3% degli ultra65enni, con una media di circa 2 ore al mese. 9.000 persone, di cui 7.500/8000 non autosufficienti, sono accolte in strutture residenziali. Se poi andiamo dentro e oltre i numeri, ci rendiamo conto che, quando una persona vive a casa, la cura grava sulle famiglie, che si trovano a dover essere anche registe dell’organizzazione dell’assistenza (le “badanti”, regolari e no, vengono stimate, non solo per gli anziani, in circa 30.000)”.

Anche su questo versante i dati sono eloquenti. Riusciremo a mettere una zeppa in questo meccanismo infernale che mina la salute e la vita di tutti noi?