Quando si parla di lavoro minorile quasi sempre si fa riferimento all’impiego irregolare di ragazze e ragazzi. Tuttavia, esiste anche il lavoro minorile regolare, che presenta una serie di aspetti etici, sociali, giuridici ed economici che quasi mai riescono a raggiungere la pubblica attenzione, se non a ridosso di qualche incidente. La recente indagine dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza  realizzata nell’ambito del progetto FASE “FormAzione Sicura in Età adolescenziale”, con la collaborazione dell’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali E.T.S. e della Fondazione Censis, cerca di  fornire un’analisi approfondita, su scala nazionale, della dimensione quantitativa del fenomeno del lavoro regolare minorile, che riguarda i ragazzi tra i 15 e i 17 anni, e della qualità dell’esperienza lavorativa sia dal punto di vista della prevenzione dei rischi sul lavoro sia di quello formativo.

I minorenni che lavorano possono essere divisi in 4 gruppi:

1) Studenti in alternanza, ovvero gli iscritti alla scuola secondaria superiore o alla Istruzione e Formazione professionale (IeFP) che svolgono le ore di  Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO) in un contesto lavorativo. È di circa un milione il numero dei 15-17enni che ogni anno svolgono attività di PCTO e che potenzialmente possono far ingresso in una realtà lavorativa; a questi si aggiunge una quota minoritaria di studenti impegnati in stage, tirocini;

2) Apprendisti che, in alcuni casi sono iscritti alla IeFP per il conseguimento della qualifica. I 15-17enni assunti in apprendistato nel 2022 sono circa 7.800;

3) Minorenni che lavorano, assunti con contratto a tempo indeterminato avendo assolto all’obbligo scolastico e formativo. Nel 2022 sono 4.300;

4) Lavoratori a termine, ovvero minorenni che sono impegnati in lavori a tempo determinato. Nella gran parte dei casi si tratta di studenti che lavorano saltuariamente per assicurarsi un reddito minimo e non gravare troppo sui genitori. I 15-17enni che nel 2022 sono stati assunti con contratti a termine sono circa 42.000.

A questi 4 gruppi va poi aggiunta una quota di circa 140.000 minorenni, che sfiora il 10% del totale, che si auto dichiarano NEET in quanto non studiano né lavorano e rischiano di rimanere esclusi da qualsiasi opportunità di socializzazione, formazione e lavoro e di precipitare in una condizione di esclusione e povertà immateriale da cui è difficile riprendersi. E il 43% dei NEET si trova al Sud, dove è più numerosa, dal punto di vista demografico, la quota dei ragazzi in questa fascia di età. La forchetta tra il Mezzogiorno e il resto del Paese si allarga sensibilmente quando si considera la fascia dei 15-29enni: si trovano tutte nel mezzogiorno le 9 province dove oltre il 35% dei giovani è NEET. Su questi minorenni, che sono il risultato di un processo di transizione tra la scuola e il lavoro che non funziona e non riesce a tenere dentro tutto il capitale umano disponibile, non c’è nessuna attenzione né di tipo statistico né conoscitivo.

Una questione che emerge in maniera evidente dall’analisi riguarda le differenti opportunità di formazione professionale esistenti nei diversi territori, con oltre il 60% della offerta formativa che si concentra nelle Regioni del Nord, e la conseguente difficoltà, per i minorenni che vivono al Sud, di accedere ai percorsi di IeFP. Il risultato è che nel Nord Ovest il 17,2% dei 15-17enni è iscritto alla Iefp, nel Nord Est il 15,9%, nel Centro l’8,9% e al Sud e Isole il 4,9%. Di contro, nelle regioni del Sud la quota di 15-17enni iscritti alla scuola secondaria superiore raggiunge o supera il 90% del totale, contro circa l’80% del Nord Ovest.

La ricerca affronta anche il tema degli infortuni sul lavoro. “ I dati resi disponibili dall’Inail -si legge nel rapporto – evidenziano come nel 2022 si siano registrate 17.531 denunce per infortuni di minorenni: di queste, 14.867 hanno riguardato studenti (641 dei quali impegnati in alternanza scuola-lavoro) e 2.664 lavoratori (tra cui 285 allievi di corsi di formazione professionale). In tre casi gli infortuni hanno avuto un esito mortale. La mancanza di informazioni e di analisi più specifiche in merito a tipologia e caratteristiche degli infortuni di cui sono vittima i minorenni che si trovano sui luoghi di lavoro rischia di trasformare gli infortuni più gravi in fatti di cronaca su cui, al più, vengono formulate policy dettate dall’emergenza.”

Siamo profondamente convinti della necessità che le ragazze e i ragazzi restino in formazione almeno fino alla maggiore età e che i vari istituti di istruzione/formazione e lavoro spesso presentino limiti se non addirittura irregolarità e sfruttamenti. Anche perché la cultura lavoristica italiana non ha ad oggi colto che fino ai 18 anni quella del minorenne rappresenta una condizione del tutto specifica. Tuttavia, ci si rende conto della complessità e delle implicazioni del fenomeno del lavoro minorile, su cui bisognerebbe avere un quadro unitario e aggiornato, che ad oggi risulta assente. Mancano addirittura i dati relativi al fenomeno e, come si sottolinea nell’indagine, “sarebbe auspicabile promuovere quantomeno il lavoro di rete ed il coordinamento tra le diverse Amministrazioni pubbliche coinvolte nella produzione di dati (almeno Istat, Inail, Ministero del Lavoro, INPS) sul lavoro e la sicurezza sul lavoro dei minorenni al fine di: considerare i 15-17enni come aggregato a sé stante all’interno delle elaborazioni e delle analisi sulla condizione occupazionale della popolazione; addivenire ad una definizione statisticamente condivisa di lavoro regolare minorile; mettere a sistema le statistiche disponibili nelle diverse fonti in modo da poter disporre di dati omogenei, condivisi e aggiornati; prevedere un insieme di rilevazioni che coinvolgano a cadenza periodica le diverse componenti del lavoro minorile per metterne a fuoco le criticità e i punti di forza; istituire un Rapporto di monitoraggio annuale sul lavoro regolare minorile che sia anche di impulso per la definizione di policy in materia.”

Si condividono appieno le conclusioni alle quali comunque giunge l’indagine promossa dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti, laddove sottolinea che: ”Il sistema sembra aver acquisito che adolescenza e lavoro sono mondi che devono mantenere una certa distanza, laddove la stessa logica del learning by doing, pur introducendo un cambiamento culturale verso la didattica del fare, ribadisce l’obiettivo di voler dar vita ad una scuola aperta che, in linea con quanto accade nel resto dell’Europa, riesca a sostenere gli studenti nel consolidare attraverso l’esperienza pratica le conoscenze acquisite a scuola, in modo da far emergere le abilità di ciascuno e meglio orientarli per il futuro. Come a ribadire, se letta in questo senso, che per gli adolescenti i luoghi “ideali”, sicuri, sono comunque quelli formativi, e non i contesti di lavoro. L’evoluzione del learning by doing è da monitorare soprattutto per questa attenzione a costruire luoghi di formazione, appunto, sicuri e adeguati.

 

Qui per scaricare l’indagine: https://www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/2023-12/progetto-fase-pubblicazione.pdf.