Il gioco d’azzardo in Piemonte appare un mostro lontano ed è invece estremamente vicino alla vita delle persone. Luca è in pensione, la moglie è morta recentemente ed è rimasto solo con un figlio adolescente. Vive in un monolocale nella periferia sud della città, si veste in modo semplice, non ha l’automobile e non va in ferie da anni eppure da giovedì lui e il figlio hanno dovuto lasciare la casa ed andare a vivere in un centro di ospitalità. Per tre anni non ha pagato l’affitto e alla fine il proprietario a malincuore ha dovuto riprendersi l’alloggio. Dietro tutto questo c’è il gioco, ma quello che gli sta succedendo non è per niente un gioco. Dopo che le principali associazioni piemontesi avevano raccolto oltre 12 mila firme per proporre una legge di iniziativa popolare per contrastare il gioco patologico, la Regione spiega la consigliera Canalis «è rimasta nella totale indifferenza».

Tuttavia, come spiega la psicologa e psicoterapeuta Elisabetta Welponer «l’azzardo è un effetto di un problema più grande, non è la causa. Non bisogna prendere provvedimenti sugli atteggiamenti che vengono utilizzati per sopravvivere alla vita. Il punto è perché uno deve sopravvivere alla vita. Per cui l’accento non va posto sui provvedimenti (leggi) relativi al gioco, ma andrebbero presi provvedimenti sullo stato sociale perché altrimenti noi scambiamo il sintomo con la causa. Se scambiamo il sintomo con la causa siamo sulla strada del potere. Se si prendono provvedimenti sul gioco le persone si drogheranno, berranno, si faranno di farmaci… cioè non è il sintomo perché la persona che ha una compulsione d’angoscia per tappare tutta la sua sofferenza utilizzerà tranquillamente qualsiasi cosa per cui tu gli togli un elemento (una sostanza, un atteggiamento…) e lui ne troverà un’altra perché questa compulsione permette lo stemperare dell’angoscia. Il proibire e controllare aumenta il traffico illegale, il mercato nero, non si tratta di togliere quella che per la persona in quel momento è la soluzione migliore che può trovare. Al sig. Luca non si tratta di togliere il gioco, ma di aiutarlo a trovare una soluzione migliore e capire cosa sta facendo lo stato sociale per lui e capire quali problemi ci sono ed è questo l’accento, non sul fatto che lui gioca. Perché è vero che il gioco lo distrugge, ma è altrettanto vero che questo gli salva la vita perché per lui l’alterativa è il suicidio. Molto spesso finisce così, quando noi togliamo la compulsione alle persone che stanno male queste si suicidano perché quella era la loro soluzione anche sé disfunzionale, bisogna aiutarli a trovare una soluzione funzionale e questa non può essere sul sintomo, ma sulla causa».

Se è vero che in situazioni di dipendenza grave, esistenziale, la persona tende a muoversi da una dipendenza all’altra, in condizioni non patologiche la collocazione di slot in locali che si trovano a una distanza dai luoghi sensibili può evitare il contatto e l’inizio del problema. Come spiega il dott. Paolo D’Elia «questo genere di fenomeni non possono che affrontarsi con strategie multilivello: sociali, politiche, legislative, psicologiche: più che essere contrapposte vanno integrate». Resta il fatto che la regolamentazione in atto fino al 2016 aveva portato alla riduzione del 20% dei malati e forse se il centro destra non l’avesse abrogata oggi Luca sarebbe ancora a casa sua.

Fabrizio Floris