Respingendo il ricorso della multinazionale delle consegne a domicilio Glovo, la Corte di Appello di Torino ha confermato il giudizio di primo grado con cui il Tribunale, lo scorso 13 gennaio, aveva stabilito che gli 8 riders che avevano fatto causa collettivamente al colosso spagnolo debbano essere considerati lavoratori subordinati a tutti gli effetti. Ai ciclofattorini è stato dunque riconosciuto il pagamento delle differenze salariali calcolate in base al contratto collettivo nazionale del terziario, con pause, spostamenti e attese comprese.

Il nuovo verdetto si aggiunge alla catena di sentenze che, nel corso degli ultimi anni, hanno riconosciuto i riders come lavoratori subordinati, confermando che essi non possono essere pagati con salari inferiori ai minimi dei contratti nazionali di categoria né possono essere lasciati a casa da un giorno all’altro con l’inoltro di una semplice comunicazione via posta elettronica. Domani, davanti all’INPS di Torino in Via XX Settembre, avrà peraltro luogo la protesta dei riders di Uber Eats, altra multinazionale della consegna del cibo, che ha annunciato che chiuderà l’attività dal prossimo 15 luglio, lasciando a casa oltre 8mila lavoratori in tutto lo stivale. Erano stati tutti assunti con contratto di prestazione occasionale, senza tutele o garanzie.

“Questo accumularsi di pronunciamenti dei tribunali – ha dichiarato l’Unione Sindacale di Base in una nota di commento alla sentenza – conferma il fatto che Uber Eats non può impunemente lasciare a casa 8500 rider con una mail, e rafforza le nostre rivendicazioni perché sia aperto un procedimento di licenziamento collettivo e venga corrisposto a tutti i rider la parte di salario non percepita perché non inquadrati come lavoratori subordinati”. L’USB ha aggiunto: “Riteniamo che le istituzioni debbano assumersi subito la responsabilità di tutelare i rider, non solo quelli di Uber Eats, oggi sotto licenziamento, ma tutti i rider di tutte le piattaforme, alle quali deve essere imposta l’assunzione dei rider con il CCNL Logistica, senza accordi peggiorativi di secondo livello come Scoober – ha aggiunto l’USB -. Quanto sta accadendo con Uber Eats non deve potersi ripetere”.

La sentenza, secondo il sindacato, contiene comunque dei “buchi” importanti. Le rivendicazioni dei riders si focalizzavano infatti su altre due questioni fondamentali: la mancata salvaguardia della sicurezza dei ciclofattorini e il meccanismo discriminatorio dell’algoritmo che regola il loro lavoro. Si richiedevano specifiche tutele, come le visite mediche prima e durante il periodo di lavoro e la dotazione dei mezzi di sicurezza (come il casco) e la loro manutenzione. E si protestava vigorosamente contro il procedimento sistematico di calcolo che premia i riders che compiono “corse pazze”: la possibilità di prenotare più turni di lavoro è infatti direttamente proporzionale alla quantità di consegne svolte. Per questo motivo, nella sentenza si reclamava anche il riconoscimento del danno patito ogni giorno dai ciclofattorini in relazione al rischio di infortunio e di morte. Ma, nel suo verdetto, il Tribunale di Torino aveva respinto questa richiesta.

La principale battaglia riders, che continuano a manifestare e scioperare su tutto il territorio nazionale, riguarda l’applicazione integrale del Contratto Nazionale della logistica anche alla loro categoria. Negli scorsi mesi, però, in tema di diritti sono arrivate cattive notizie dalle istituzioni comunitarie e nazionali.

L’esecutivo UE, da una parte, ha delineato sette criteri utili a verificare l’effettiva dipendenza dei ciclofattorini nei confronti delle app di delivery, tra cui la sottoposizione a “recensioni” da parte dei clienti: per considerare i riders dipendenti a tutti gli effetti, almeno 3 di essi dovranno essere soddisfatti. Il Decreto lavoro del governo Meloni, approvato lo scorso 1 maggio, ha poi cancellato il diritto dei riders (e di coloro che, nei più svariati ambiti, lavorano per una piattaforma digitale) di conoscere le regole dell’algoritmo che “governa” il loro lavoro, provocando così un alleggerimento dell’obbligo di trasparenza per le aziende che lo utilizzano. La battaglia, su più fronti, è ancora lunga.

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