Sono trascorsi già alcuni mesi da quando alcuni portali d’informazione[1] hanno posto l’attenzione sulla grave situazione riguardante la natura punitiva del servizio civile alternativo della Corea del Sud. La questione risale infatti a dicembre del 2022, quando il Tribunale distrettuale di Gwangju è stato chiamato ad aprire un’inchiesta riguardante il caso di Hye-min Kim, il primo obiettore di coscienza a essersi rifiutato di svolgere il servizio civile alternativo del Paese a motivo della sua natura punitiva.

Un’apparente conquista. Il servizio civile alternativo in Corea del Sud rappresenta una recente “conquista”, o almeno così sembrava essere. Dagli anni ‘50 molti giovani coreani sono stati imprigionati per il loro rifiuto di svolgere il servizio militare. Per la maggior parte si è trattato degli oltre 19.000 testimoni di Geova obiettori condannati a scontare in prigione un totale di 36.000 anni perché non volevano rinnegare la loro fede. Finalmente nel 2018 la Corte costituzionale e la Corte suprema, con due sentenze storiche, hanno riconosciuto il fatto fondamentale che la Costituzione coreana tutela i diritti degli obiettori di coscienza e che l’obiezione di coscienza al servizio militare è un diritto e non un crimine.

Secondo gli standard internazionali il servizio civile alternativo non dovrebbe essere organizzato sotto il controllo o la supervisione militare, ma essere di natura civile e non punitivo per durata o condizioni. La stessa Commissione dell’ONU per i Diritti Umani, con una risoluzione del 1998, invitava gli Stati ad impiegare gli obiettori di coscienza in mansioni “di pubblica utilità e che non abbiano una natura punitiva”.

Tuttavi, le difformità che si rilevano mettendo a confronto il sistema attuale della Corea del Sud con quanto adottato in altri Stati sono piuttosto evidenti e ridondanti. È dunque doveroso chiedersi cosa non “funzioni” in questo servizio civile, istituito in una nazione spesso considerata come una delle più “occidentalizzate” d’oriente, ovvero in una realtà in grado di garantire i diritti fondamentali degli individui.

Perché punitivo?  Il servizio civile coreano è uno dei più lunghi al mondo, in quanto prevede un iter che dura 36 mesi (esattamente il doppio rispetto ai 18 mesi del servizio militare).

In questo lungo periodo gli obiettori di coscienza sono costretti a permanere in dormitori situati all’interno di strutture detentive e sono sottoposti anche a severe restrizioni. Agli obiettori di coscienza vengono imposte anche irragionevoli restrizioni per quanto riguarda i contatti con le famiglie e la possibilità di uscire dalla struttura per svolgere le attività essenziali per la vita e la serenità di un individuo, risultando essere così un trattamento assimilabile a quello dei detenuti. Infatti non è difficile comprendere che una simile “organizzazione” del servizio civile alternativo renda oltretutto impossibile agli obiettori fornire supporto finanziario ed emotivo alle proprie famiglie.

A quanto già considerato occorre poi aggiungere che, essendo il servizio civile coreano limitato soltanto alle attività da svolgere all’interno delle strutture di detenzione, per i pochi posti disponibili, i richiedenti attendono in media 31 mesi per iniziare il servizio civile alternativo e questo influisce pesantemente sulla possibilità di queste persone di perseguire una carriera lavorativa e sulla serenità personale e familiare.

Un rapporto speciale sul servizio civile alternativo in Corea del Sud è stato redatto dall’Associazione dei Testimoni di Geova dell’Asia e del Pacifico (APAJW) con lo scopo di sensibilizzare al riguardo funzionari governativi, giornalisti e docenti. Da questo resoconto emergono chiaramente le condizioni punitive del servizio alternativo non solo per la durata del servizio ma anche per le dure mansioni che gli obiettori sono chiamati a svolgere all’interno delle prigioni (le stesse a cui sono sottoposti i prigionieri condannati). Questa realtà ha portato diversi esperti internazionali a definire il servizio civile della Corea del Sud non come una reale alternativa al servizio militare ma come una “punizione alternativa”.È quindi evidente che la Corea del Sud si trova oggi di fronte a una nuova sfida cruciale: ripensare e riprogettare il suo servizio civile in modo da rispettare pienamente i diritti umani e gli standard internazionali, come previsto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite. È assolutamente auspicabile che la Corea del Sud adotti una prospettiva nuova e inclusiva per il servizio civile. Questo dovrebbe significare ridurre la durata del servizio, garantire libertà di movimento e favorire un ambiente civile e non carcerario agli obiettori. Inoltre, l’accesso a opportunità educative, professionali e familiari non dovrebbe essere compromesso a causa di lunghi ritardi nell’inizio del servizio civile.

In conclusione, la riforma del servizio civile in Corea del Sud non solo garantirebbe il rispetto dei diritti fondamentali di chi voglia avvalersi del servizio civile alternativo, ma ne favorirebbe l’integrazione nella società coreana, offrendo loro maggiori opportunità di apprendimento, una crescita professionale e stabilità familiare. La strada verso un servizio civile rispettoso e mai punitivo in Corea potrebbe portare il Paese ad una effettiva posizione inclusiva e all’avanguardia nel rispetto dei diritti umani.

 

[1] Si dibatte sulla natura punitiva del servizio civile alternativo della Corea del Sud (jw.org); Corea del Sud: Obiettori di coscienza, battaglia legale contro il servizio alternativo punitivo | -europeantimes.news-; Corea del Sud, a processo obiettore che rifiuta il servizio alternativo a quello militare | Le persone e la dignità (corriere.it)