L’analisi sugli anni di maggiore perdita forestale nella regione [dell’America Latina, NdT] permette di riconoscere come questi fatti si sono relazionati con le decisioni politiche adottate dai governi negli ultimi vent’anni. In Brasile, per esempio, la stima della deforestazione era riuscita a mantenersi al ribasso finché è salito al potere Jair Bolsonaro.

Paesi come Brasile, Messico e Bolivia hanno ceduto alle pressioni della domanda del bestiame e delle esportazioni agricole, facilitando l’aspetto legale o creando programmi per lo sviluppo di quest’industria. In Colombia la deforestazione è incrementata a seguito della firma dell’Accordo di pace; in Perù la maggiore perdita boschiva è stata registrata nel contesto dell’assassinio dei leader ambientalisti.

«Durante l’amministrazione di Bolsonaro è stato dato un vero e proprio permesso sociale alla deforestazione e agli invasori dei terreni pubblici, lasciando intendere che le attività illecite non sarebbero state represse», dice Juliana de Paula Batista, avvocata dell’ONG brasiliana Instituto Socioambiental (ISA). La sua testimonianza riassume il significato dello smantellamento delle istituzioni per l’ambiente in Brasile negli ultimi quattro anni. Il governo di Bolsonaro è un caso simbolo che mostra chiaramente la relazione tra le decisioni politiche e l’incremento della deforestazione, ma non è l’unico esempio. Per approfondire questo legame, mettiamo a confronto l’avanzamento della perdita boschiva nella regione [sudamericana, NdT] con le principali decisioni politiche che i governi hanno adottato negli ultimi vent’anni.

A questo scopo sono stati selezionati tre Paesi (Brasile, Messico e Perù) che hanno cifre ufficiali e complete sulla deforestazione nel periodo 2001–2021; due Paesi (Colombia e Bolivia) che hanno iniziato il monitoraggio a metà periodo; e uno (Ecuador) che mantiene lo sfasamento e l’opacità dei dati. Questo ci ha permesso di associare i momenti più critici della deforestazione ai governi di turno, e di capire quali fattori sono stati determinanti.

Deforestazione in America Latina. Fonti: Conafor, Ideam, Conaf, INAB, CONAP, Minam, MAE, ABT, TerraBrasilis, UMSEF e il Sistema nazionale di monitoraggio dei boschi nativi in Argentina.

Eventi politici ed economici alla base della deforestazione

Una delle prime disposizioni della presidenza di Jair Bolsonaro nel 2019 è stata propiziare l’uscita del direttore dell’ente governativo che misura la deforestazione, dopo averlo accusato di presentare cifre elevate e sensazionaliste. Aveva pure annunciato un cambiamento alla metodologia di calcolo, poiché riteneva che i dati pubblicati danneggiassero l’immagine del Paese.

Juliana de Paula Batista dell’ONG brasiliana ISA ricorda che il governo aveva tentato di impedire o ritardare la pubblicazione dei risultati del suddetto Istituto per le Inchieste Spaziali (INPE), ma l’agenzia ha continuato il suo controllo annuale. Spiega: «Sono stati smantellati gli organismi per l’ambiente, sono stati messi a capo militari senza competenze tecniche e hanno anche lavorato verso la legalizzazione delle estrazioni minerarie in territori indigeni, ma hanno fallito».

Le informazioni ricavate dalla piattaforma ufficiale del Brasile mostrano che, negli ultimi vent’anni, questo Paese ha perso più di 24,9 milioni di ettari di bosco, cioè una superficie simile allo stato di San Paolo. L’analisi storica dei dati evidenzia che i picchi di deforestazione sono avvenuti tra il 2002 e il 2004, quando si sono persi fino a 2,7 milioni di ettari in un anno. Questo periodo corrisponde all’ultimo anno di governo di Fernando Henrique Cardoso e all’inizio del primo mandato di Lula da Silva. Nel 2004 è stato approvato il Piano d’azione per la Prevenzione e il controllo della deforestazione nell’Amazzonia legale, per cercare di frenare la perdita delle foreste spinta in parte dall’espansione delle coltivazioni di soia in zone come il Mato Grosso. Da allora, la stima delle perdite boschive ha mantenuto una tendenza al ribasso fino alla presa di potere di Jair Bolsonaro.

Il monitoraggio della piattaforma TerraBrasilis, gestita dal governo brasiliano, conferma che l’aumento sostenuto della deforestazione coincide con il periodo di Bolsonaro. Nel 2019, il suo primo anno di amministrazione, la perdita di superficie forestale è aumentata da 753.600 a 1.012.000 ettari. Nel 2021, alla fine del suo governo, la cifra è arrivata a 1.303.000, cioè il 73% in più rispetto all’inizio del suo mandato. I beneficiari di questi cambiamenti sono stati gli impresari agricoli e del bestiame.

Il Brasile non solo ha come principale prodotto agricolo d’esportazione la soia, una monocoltura usata come alimento per gli animali e che occupa 12,4 milioni di ettari di territorio, ma ha anche più bovini che persone. Fino al 2021 l’Istituto Brasiliano di Geografia e Statistica (IBGE) ha registrato 224 milioni di capi di bestiame in tutto il Paese [rispetto ai circa 214 milioni di abitanti, NdT].

L’America Latina ha aumentato notevolmente i volumi di produzione di carne e, di conseguenza, ha esteso i propri pascoli su migliaia di ettari precedentemente boschivi. Secondo i dati della FAO, citati dalla Banca Mondiale nello studio “Panorami alimentari futuri 2020”, la regione copre circa il 25% del consumo mondiale di carne bovina e il 26% di carne di pollame.

L’acquirente principale è la Cina, che in soli 15 anni ha decuplicato le risorse destinate all’importazione della carne. Secondo un rapporto della Banca Mondiale, tra il 2000 e il 2015 questo Paese è passato da un investimento di 200 milioni di dollari a quasi 2 miliardi per i prodotti a base di carne provenienti dai tre esportatori maggiori dell’America del sud: Argentina, Brasile e Uruguay.

Terreni deforestati nel parco Sierra de La Macarena, vicino al parco Tinigua. Foto di: FCDS.

A questa pressione sulle esportazioni si somma la possibile applicazione dell’Accordo di libero commercio tra l’Unione Europea e i Paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay), un patto che aumenta al 30% la quota d’importazione della carne nei Paesi europei e che riduce i costi di esportazione della soia. Il documento è stato firmato nel 2019 ma è in sospeso per i dibattiti ambientalisti riguardo un’attività che inciderà sui boschi dell’America Latina.

Anche in Messico il bestiame è importante per il settore economico e occupa quasi il 55% del territorio nazionale, fatto che ha portato tale nazione a posizionarsi all’11° posto tra i produttori e commercianti mondiali di carne. Secondo i dati della Commissione nazionale forestale (Conafor), l’industria del bestiame è responsabile del 74% del cambio di destinazione d’uso delle terre in Messico e, tra le zone più colpite, ci sono la penisola dello Yucatán e gli stati di Chiapas, Michoacán e Jalisco.

Le statistiche mostrano che, tra il 2001 e il 2021, più di 3 milioni di ettari di foreste sono state rase al suolo al fine di trasformarle in zone di allevamento e pastorizia. Una superficie simile a una volta e mezza lo stato di Messico [suddivisione amministrativa omonima all’intera nazione, NdT]. La seconda ragione del disboscamento, con una stima di 46.817 ettari all’anno, è la conversione in colture agricole (21%).

L’avocado, la soia, la palma da olio e la canna da zucchero sono quattro monocolture che richiedono grandi superfici e che esauriscono i nutrienti dei terreni messicani. Il cosiddetto oro verde si è espanso violentemente nelle zone forestali di Jalisco e Michoacán tramite il crimine organizzato, che ha tentato di prendere il controllo di questo prodotto d’esportazione; invece le colture come la palma sono cresciute grazie agli aiuti statali.

È stato il governo del presidente Felipe Calderón (2006–2012) che ha spinto il programma di Riconversione produttiva (2007–2012) per sostituire le coltivazioni di mais con quelle di soia e palma da olio. Inoltre, sono state assegnate sovvenzioni ai produttori e sono state distribuite piantine di palma in Chiapas, dove l’obiettivo era seminare 100.000 ettari di questa monocoltura. Nello specifico, i dati storici analizzati nell’inchiesta mostrano che, durante questo governo, la deforestazione è cresciuta in modo sostenuto fino a una delle cifre peggiori: da quasi 99.000 ettari rasi al suolo all’inizio del suo mandato, a 324.000 ettari persi al suo termine.

Ma la cifra record nella perdita boschiva è stata raggiunta nel 2016 durante l’amministrazione di Enrique Peña Nieto (2012–2018), il periodo in cui è stato spinto il settore agricolo per le esportazioni e sono continuati gli incentivi economici per la produzione di palma, dovuti alla sua quotazione e domanda sul mercato internazionale. Secondo i dati della Conafor, quest’anno 350.000 ettari sono stati rasi al suolo dal reimpiego delle terre per i pascoli e dall’aumento dei terreni dedicati all’industria agricola.

Secondo Miguel Martínez, ricercatore senior dell’Istituto di ricerca sugli ecosistemi e sulla sostenibilità dell’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM), la portata sociale ed economica è il fattore che spinge la deforestazione e il degrado dei boschi in America Latina. Sostiene che le normative politiche dovrebbero regolare, ispezionare, promuovere la diversificazione del lavoro e la conservazione della biodiversità, ma spesso sostengono gli ordini dei mercati internazionali che, nel caso del Messico, puntano sull’avocado e sulla palma. Martínez spiega: «Le aziende di palma da olio comprano o affittano appezzamenti a famiglie e così ottengono aree sempre più grandi per insediarsi in zone tropicali umide».

Nella comunità di San Miguelito il progetto di disboscamento avanza e si avvicina al Comune indigeno San Antonio de Lomerío. Foto di: Edwin Caballero.

Nel frattempo anche in Bolivia il sostegno statale al settore agricolo ha segnato lo sviluppo della deforestazione, precisamente con il governo di Evo Morales (2006–2019). Dal 2012, anno in cui le sue autorità per l’ambiente hanno iniziato a monitorare la perdita annuale dei boschi, si evidenzia una tendenza in crescita fino al suo picco storico nel 2016, con 295.770 ettari rasi al suolo.

Nel suo documento “Deforestazione nello stato plurinazionale della Bolivia 2016–2017”, il governo segnala che questo è dovuto all’aumento della deforestazione legale tramite misure spinte dall’autorità di ispezione e controllo sociale di boschi e terra (ABT), nel quadro degli obiettivi del Progetto di Sviluppo Economico Sociale (PDES) «relazionati allo smantellamento della burocrazia di pianificazione nella gestione agraria». Hanno detto che questi includono «progetti di ordinamento» delle proprietà, di disboscamento e autorizzazione agli incendi.

Inoltre, durante gli anni precedenti a questo picco della deforestazione, tra il 2013 e il 2015, sono state pubblicate tre norme e relativi emendamenti che hanno condonato sanzioni e hanno legalizzato l’estensione della frontiera agricola per privati e imprese. Una di queste, la Legge n.337, ha approvato un regime straordinario per il trattamento dei disboscamenti illegali avvenuti tra il 1996 e il 2011, poi prorogato fino al 2017. Ha perdonato e dato una multa simbolica a chi ha deforestato o appiccato incendi senza autorizzazione.

Marlene Quintanilla, dell’ONG Fondazione Amici della Natura, spiega che la politica economica del governo di Evo Morales è stata concepita innanzitutto per sostenere l’industria agricola, ma poi si è legata all’espansione delle zone per il bestiame, allo scopo di esportare carne in Cina. Secondo l’esperta, negli ultimi 20 anni, circa quattro milioni e mezzo di ettari di foreste sono stati persi a causa di incendi appiccati non solo da fattori climatici, ma anche da cause umane per ampliare i pascoli.

Coltivazioni agricole nel dipartimento di Santa Cruz. Questa foto è stata scattata durante gli incendi forestali del 2019, che colpirono 6,4 milioni di ettari in Bolivia. Foto di Eduardo Franco Berton.

«Nel Vertice Alimentare del 2015, il governo di Evo Morales ha indicato che è necessario aumentare le superfici agricole per garantire la sicurezza alimentare. Sono stati approvati pacchetti di leggi per rendere flessibili i requisiti relativi al disboscamento. Come risultato, i terreni agricoli sono duplicati […]. L’economia ha visto i boschi come un ostacolo allo sviluppo. L’assegnazione di proprietà terriere è stata accelerata trascurando l’aspetto ambientale, dato che alcune autorità considerano i boschi come terre carenti e non produttive», dice Quintanilla.

Politica, deforestazione e violenza

Anche in Colombia l’espansione del bestiame e l’accaparramento delle terre spingono alla deforestazione, ma il suo aumento è stato segnato da uno specifico punto di riferimento storico: le statistiche confermano che le foreste sono state le vittime silenziose del dopoguerra, durante l’ultimo periodo del governo di Juan Manuel Santos (2010–2018). Nel 2017, un anno dopo la firma dell’Accordo di Pace con le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC), la deforestazione è aumentata da 178.000 a quasi 220.000 ettari. Questo è stato il picco più alto di perdita boschiva registrato nel Paese da quando le autorità per l’ambiente hanno cominciato a monitorare il fenomeno annualmente.

Le terre precedentemente in mano alla guerriglia sono state occupate da persone armate illegalmente, da bande criminali e dal narcotraffico. A queste si sono aggiunti i gruppi dissidenti non smobilitati della FARC. L’ex ministro per l’Ambiente Manuel Rodríguez riferisce che la deforestazione ha ceduto terreni al bestiame e all’accaparramento di suolo in Amazzonia. D’altra parte, l’Accordo di Pace aveva promesso la redistribuzione di 7 milioni di ettari di terre, ma la sua pessima attuazione ha incrementato le azioni di abbattimento e di semina dovute all’aspettativa di accedere all’assegnazione di proprietà terriere. Sono state delimitate grandi estensioni di terreno e sono stati comprati appezzamenti a basso prezzo.

Inoltre, dopo il processo verso la pace, sono aumentate le coltivazioni di coca lungo la costa pacifica colombiana e in Amazzonia, dato che il programma di eradicazione volontaria è fallito e molti agricoltori sono tornati alle semenze illecite o hanno cominciato a seminare foraggio per il bestiame. «Sono molto preoccupato per l’attuale politica di colture narcotiche perché è stata abbassata la guardia e i gruppi al margine della legge continueranno la deforestazione», ha detto Rodríguez.

Il successore di Santos, il presidente Iván Duque (2018–2022), ha lanciato nel 2019 l’Operazione Artemisa per recuperare la foresta dall’occupazione illegale, ma il programma non è riuscito a frenare la deforestazione. I dati analizzati indicano che, durante il suo secondo anno di governo, la perdita boschiva è diminuita del 28% rispetto al record nazionale del 2017. Tuttavia, nel 2021 la cifra era già aumentata del 9,5%. Rodríguez ha aggiunto: «Duque è ritornato con la politica populista di seminare 140 milioni di alberi ma, senza un controllo adeguato, ne sono sopravvissuti solo il 40%».

Lo sviluppo delle economie illegali, l’accaparramento di terre e la deforestazione sono stati accompagnati dalla violenza. Nel 2022, l’ultimo anno del mandato di Duque, l’Istituto di Studio per lo Sviluppo e la Pace (Indepaz) ha calcolato l’assassinio di 189 leader sociali e difensori dei diritti umani in attacchi favoriti da gruppi armati illegali e da bande criminali. Questa cifra è più alta dei 171 casi registrati nel 2021 dallo stesso ente.

A differenza di Brasile, Messico e Colombia, in Ecuador è difficile identificare un evento storico per la deforestazione, dato che non c’è un registro annuale delle perdite e delle cause. Negli ultimi vent’anni il Ministero dell’ambiente, dell’acqua e della transizione ecologica (Maate) e il Sistema nazionale di monitoraggio dei boschi (SNMB) hanno misurato il reimpiego delle superfici forestali ogni sette, sei e due anni. I loro dati non sono aggiornati ma mostrano che tra il 2001 e il 2017 l’Ecuador ha perso 17.844 chilometri quadrati di boschi, equivalenti al 5,8% del territorio nazionale.

In risposta alla nostra richiesta d’informazioni, l’autorità ambientale ha fatto riferimento a studi di ricercatori e organizzazioni civili per indicare che la causa principale della deforestazione è l’espansione agricola per il consumo interno, ma non conteggiano l’impatto annuale. María Olga Borja, coordinatrice del progetto Maap Biomas Ecuador nella Fondazione EcoCiencia, segnala che la carenza di monitoraggio impedisce di identificare uno schema nella riduzione dei diversi tipi di foreste presenti nel Paese.

Piantagioni di palma africana da olio nella costa pacifica del Guatemala. Foto di Carlos Alonzo/Agencia Ocote.

Borja ha spiegato che nel territorio amazzonico dell’Ecuador non esiste un settore di produzione agricola industrializzata che gestisce in modo sostenibile le risorse forestali, a causa della difficile configurazione geografica del luogo e della mancanza di strade per trasportare le merci. Qui sono i piccoli produttori a trasformare e possedere terreni per necessità economica. Sulla costa settentrionale, invece, la provincia di Esmeraldas ha la più ampia concentrazione di industrie di piantagioni di palma del Paese.

Secondo l’esperta, le cifre presentate dal governo dell’Ecuador alla comunità internazionale mostrano che la deforestazione è sottostimata perché le medie comprendono un lungo periodo di tempo. Tuttavia, questi dati sono influenzati dalla misurazione nelle zone costiere dove non esistono più foreste. Borja dice: «La deforestazione è legata alla situazione economica del Paese, che a sua volta dipende dal settore degli idrocarburi. Quando la manodopera non qualificata declina in questo settore, la deforestazione incrementa perché le famiglie spostano lo sguardo ai boschi e usano la terra in modo intensivo. L’attività petrolifera, per di più, ha attratto migrazioni, abbattimenti illegali, caccia e semina nelle zone confinanti».

La pressione economica e delle attività estrattive in Amazzonia e nei boschi dell’America Latina ha conseguenze mortali per i difensori della terra. Secondo il documento dell’organizzazione Global Witness, nell’ultimo decennio sono stati assassinati 1733 attivisti in totale nel mondo, ma il 68% (1177) di questi crimini sono avvenuti in America Latina. In cima alla lista dei Paesi più pericolosi per la difesa dell’ambiente ci sono Brasile, Messico e Colombia. A questi seguono Honduras, Nicaragua e Perù, quest’ultimo con 51 morti.

Nemonte Nenquimo e la comunità waorani a un corteo. Foto di Mateo Barriga, Amazon Frontlines.

Il primo settembre 2014 quattro ambientalisti del Perù sono stati torturati e assassinati nella foresta che cercavano di proteggere. Edwin Chota, Jorge Ríos Pérez, Leoncio Quintisima Meléndez e Francisco Pinedo Ramírez erano leader della comunità indigena Alto Tamaya – Saweto, nella regione Ucayali, e sono morti dopo aver denunciato la presenza di tagliaboschi illegali nel loro territorio. Un’invasione favorita dalla richiesta internazionale di legno che è aumentata con il boom dell’edilizia. Quell’anno è stato uno dei peggiori per l’Amazzonia peruviana: più di 177.000 ettari di foreste rasi al suolo, una superficie simile a due terzi della città metropolitana di Lima.

Questi crimini sono avvenuti durante il governo dell’allora presidente Ollanta Humala, tre mesi prima della COP sul clima delle Nazioni Unite, tenutasi nella capitale. Lo scorso febbraio, quasi nove anni dopo, i responsabili sono stati condannati a 29 anni di carcere; ma l’abbattimento illegale nelle foreste continua.

I database ufficiali analizzati per questo articolo mostrano un aumento della deforestazione in Perù dal 2008, anno in cui la crisi finanziaria globale ha prodotto una maggiore richiesta d’oro e ha aumentato il suo prezzo in tutti i Paesi. Questo fatto ha favorito una maggiore pressione nelle zone minerarie, come la foresta di Madre de Dios, tra gli altri elementi che spingono alla deforestazione.

Nella zona cuscinetto della Riserva nazionale di Tambopata, a Madre de Dios, ci sono uomini e donne che hanno resistito alle minacce delle miniere e degli abbattimenti illegali per dodici anni. Foto di Vanessa Romo / Mongabay Latam.

Il record del 2014 è stato infranto nel 2020, il primo anno della pandemia, quando il Paese ha raggiunto il suo picco storico di deforestazione, superando i 203.000 nuovi ettari rasi al suolo. «Nel 2020 è stato raggiunto questo estremo perché non c’è stata supervisione sugli indici di gestione di legno illegale», dice il procuratore Guzmán. Solo quest’anno altri cinque leader indigeni minacciati dai narcotrafficanti e trafficanti di terreni sono stati assassinati nelle regioni peruviane di Ucayali, Huánuco e Pasco.

Guzmán sottolinea: «In Perù e in altri Paesi non serve a nulla misurare la quantità di superficie forestale persa ogni anno se non si passa all’azione. Se le immagini satellitari e i monitoraggi non servono a prevenire e generare una reazione immediata, non riusciremo a fermare la deforestazione».

I picchi della deforestazione nella regione [sudamericana, NdT] coincidono, quindi, con periodi di permissività o con la promozione di politiche a favore dell’economia globale e delle attività estrattive. Non è solo la richiesta agroindustriale e del bestiame che mette sotto pressione le forestr e la vita degli ambientalisti, ma è anche il ruolo dello Stato che sembra aver perso la sua funzione d’ispezione e regolazione.

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di Elizabeth Salazar Vega*

*Il progetto “Foreste perdute” fa parte di un’alleanza giornalistica tra Mongabay Latam e la sesta generazione della Rete LATAM di Giovani giornalisti da varie latitudini.

Edizione generale: Alexa Vélez. Editor: María Isabel Torres. Coordinazione: Vanessa Romo. Ricerca e analisi dei database: Gabriela Quevedo e Vanessa Romo. Analisi geospaziale: Juan Julca. Équipe giornalistica: Elizabeth Salazar e Vanessa Romo. Grafica dei dati e progetti: Richard Romero. Pubblico e reti: Dalia Medina e Richard Romero.

Traduzione dallo spagnolo di Mariasole Cailotto. Revisione di Thomas Schmid.

L’articolo originale può essere letto qui