Ex-GKN, poi QF, ora Fabbrica Socialmente Integrata Insorgiamo: quasi due anni fa oltre 400 lavoratori vengono licenziati da un giorno all’altro via e-mail. La multinazionale che anni fa ha rilevato la fabbrica intende delocalizzare gli impianti in Polonia. Gli operai dicono NO e presidiano la fabbrica per impedire che vengano portati via macchinari di avanguardia. Vengono licenziati una seconda volta dopo aver vinto una causa contro la proprietà per licenziamento illegittimo.  Subentra un nuovo proprietario con l’impegno a reindustrializzare la fabbrica, ma non ha ancora presentato un progetto. Cerca solo di sfiancare gli operai da otto mesi senza salario e senza cassa integrazione. Ma il collettivo dei lavoratori si è adoperato fin da subito per fare della lotta un’iniziativa generale: elabora, con l’aiuto di alcuni giuristi, un disegno di legge contro le delocalizzazioni. Progetta, con il sostegno di ingegneri ed economisti solidali, la riconversione produttiva della fabbrica. Promuove, con lo slogan “E voi state bene?”, il coinvolgimento di lavoratori e abitanti del territorio e poi di molte altre situazioni di crisi in giro per l’Italia. Non chiede solidarietà ma la offre, per mettere in piedi un fronte di lotta unitario. Indice, a Firenze, Bologna e Napoli manifestazioni affollatissime per far conoscere a tutti la propria esperienza. Raccoglie e valorizza il sostegno di migliaia di studenti, e poi del movimento Fridays for Future, con cui crea un sodalizio che mette al centro la riconversione produttiva che si concretizza nel progetto di nuove produzioni innovative ed ecosostenibili (cargo bici, pannelli fotovoltaici e grandi batterie senza litio) sostenute da un crowfunding e dalla creazione di una Società Operaia di Mutuo Soccorso aperta al territorio e alle realtà solidali. L’ultima iniziativa, un festival di letteratura working class all’interno della fabbrica, con 600 partecipanti, dà la misura di quanto questa lotta sappia riorientare l’asse della vita politica e sociale del paese. Intelligenza, inventiva, passione e solidarietà hanno sostenuto questo percorso.

Civitavecchia: per l’impianto di generazione a carbone di Torvaldaliga, destinato alla chiusura, l’Enel aveva programmato la riconversione a gas, spacciata, come ha poi fatto la Commissione Europea e ben prima che il blocco del gas russo inducesse anche l’abbandono del carbone, come soluzione di “transizione” verso le emissioni zero. I lavoratori dell’Enel e degli appalti dicono NO: la transizione deve essere totale, con il passaggio integrale alle fonti rinnovabili. Con il sostegno di alcuni tecnici dell’impianto e dell’Enea viene messo a punto il progetto di un campo eolico off-shore, della riconversione a fotovoltaico degli spazi liberati dal carbone e in prospettiva la creazione di polo per il varo, l’installazione e la manutenzione di tutti i futuri impianti eolici off-shore del paese: un progetto che prevede un’occupazione decisamente superiore a quella dell’impianto a gas. Poco per volta arriva l’adesione dei sindacati, di tutte le associazioni locali, del Comune, della diocesi, di molti altri Comuni vicini, della Regione e di un’impresa disposta a investire nel progetto. I lavoratori vanno a presentarlo ai colleghi di tutti gli altri impianti a carbone del Paese e su di esso convocano diverse assemblee (quelle che un tempo si chiamavano conferenze di produzione e che oggi non si fanno più). Per un momento anche Enel sembra accettarlo, osteggiata però dalla lobby del gas che in Italia si chiama ENI. La lotta e la mobilitazione continuano riportando in vita passione, orgoglio e solidarietà tra gli abitanti di una città messa da tempo ai margini della vita del Paese.

Valsusa: trent’anni fa, per assecondare le brame della Fiat, allora proprietaria di Impregilo (oggi Webuild) che si era già accaparrata la tratta AV Torino-Milano, alla costruenda rete dell’AV viene aggiunta la Torino-Lione, da costruirsi ex novo accanto a una linea già esistente e sottoutilizzata, con una “galleria di base” (a bassa quota) di 57 chilometri, in gran parte in territorio francese, ma quasi tutta a carico del partner italiano: lo scempio di un territorio bellissimo in una valle strettissima, già attraversata da una ferrovia, un’autostrada, due varianti della statale e una linea ad alta tensione. Gli abitanti, soprattutto quelli della bassa valle, colpiti da impatti ambientali destinati a protrarsi per decenni, dicono NO. Oggi sono ancora in lotta. Hanno affrontato l’occupazione militare del loro territorio, aggressioni, denunce, carcerazioni e processi farsa infiniti, denigrazioni da parte dei media di tutto il Paese, abbandono da parte dei partiti che inizialmente li avevano sostenuti, una politica che ha fatto di questa “Grande opera” inutile e dannosa la propria bandiera: quella della “crescita a spese di chi vorrebbe salvaguardare la vita degli umani e l’integrità del paesaggio.

I comitati NoTav della Valdisusa coinvolgono tutta la popolazione e suscitano la solidarietà delle tante situazioni di lotta del Paese (le bandiere NoTav sventolano in tutte le manifestazioni). Dimostrano, con il concorso di centinaia di tecnici, l’inutilità e la dannosità del progetto. Creano solidarietà (“si parte insieme e si torna insieme” è il motto delle loro mille battaglie), cultura (famosi gli incontri Il Grande cortile, che hanno radunato migliaia di ascoltatori partecipi anche in paesi di poche centinaia di abitanti). Uniscono generi e generazioni (sono coinvolti donne e uomini, giovani e adulti, vecchi e bambini, locali e forestieri). Danno fiato e ragioni alla lotta contro uno dei cardini dell’attuale modello di sviluppo: le “Grandi opere” devastanti. Restituiscono vitalità a un’economia devastata della deindustrializzazione con la valorizzazione dell’ambiente, della ricettività, dell’artigianato, delle tradizioni. Instaurano legami nazionali e internazionali con le tante mobilitazioni contro le devastazioni ambientali e la crisi climatica. Dopo trent’anni di lotta la mobilitazione è più viva che mai e la galleria non ha compiuto passi avanti, anche se i cantieri hanno già devastato importanti parti del territorio.

Queste tre vicende hanno in comune alcune cose che esemplificano la strada da percorrere e il futuro di tutti: hanno saputo dire NO in modo collettivo. Se non lo avessero tenuto fermo non avrebbero potuto costruire tutto quello che hanno realizzato nel corso del tempo. Viva i NO!

Hanno creato una rete di solidarietà e di coinvolgimento sia sul loro territorio che a livello nazionale e internazionale, scegliendo sempre gli alleati giusti e facendo comprendere che la loro lotta era una lotta di tutti e per tutti.

Hanno fatto ampio ricorso a saperi tecnici e scientifici per sostenere le loro scelte e per dimostrare l’inconsistenza delle posizioni di chi si contrapponeva a loro.

Hanno imboccato la strada della conversione ecologica con dei progetti concreti a basso impatto ambientale e con la neutralizzazione, sempre in bilico, dei programmi devastanti sostenuti dalla controparte.

Hanno prodotto e alimentato, al loro interno come tra i loro interlocutori, cultura e passione: una sostanza senza la quale nessuna comunità si regge.

Certo, sono casi singoli anche se non isolati, le cui dimensioni, per quanto estese, non reggono il confronto con quelle dei programmi, nazionali e internazionali, che dovrebbero sventare la catastrofe climatica e ambientale che incombe. Ma bisogna cominciare a guardare in faccia la realtà: quei programmi generali non si realizzeranno mai. Primo, perché sono inconsistenti: dichiarazioni e propositi di carattere generale traditi o sviati non appena si scende sul concreto, fino all’estremo di utilizzare i fondi del NextgenerationEu per pagare le bombe con cui protrarre la guerra in Ucraina. Ma se anche un’intera città, una nazione o un continente rispettassero gli impegni, pur insufficienti, assunti in uno dei tanti inutili vertici svolti negli ultimi trent’anni, gli altri non lo faranno e le conseguenze globali saranno comunque disastrose per tutti.

Ma costruire comunità capaci di auto-organizzarsi e imboccare la strada della conversione ecologica crea le forze per imporre ai governi una svolta, per quanto insufficiente e tardiva. Promuove le condizioni di un maggiore adattamento alla situazione molto più ostica a cui va incontro il pianeta. Si muove avendo come bussola la replicabilità di ciò che viene promosso (fatte salve le specificità che differenziano ogni situazione da tutte le altre), cioè l’unica strada da percorrere per generalizzare la lotta per il clima. Non rinchiude la comunità nel suo bozzolo, ma la apre a un vero cambio di rotta.