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“L’impero del silenzio” è l’ultimo film documentario del registra belga Thierry Michel sulla Repubblica Democratica del Congo (RDC).
In un’intervista pubblicata in inglese da africasacountry.com , ripresa e tradotta dal francese da afriquexxi.info, si evidenzia il lavoro del filmmaker Michel che per più di trent’anni ha viaggiato per tutto il Congo, telecamera in mano, testimoniando non solo guerre e sofferenze ma anche le speranze del popolo congolese.
“In quest’ultimo film – si legge sul blog sudafricano africasacountry – Michel risponde ad un appello del Nobel per la pace Denis Mukwege, il protagonista del suo film, “L’uomo che ripara le donne”.
Così facendo, inquadra la sequenza delle brutali violenze che hanno devastato e che rovinano il Congo ancora oggi da un quarto di secolo. Questa volta però non si concentra sulle vittime ma sugli esecutori”.
Questo film, scrive l’intervistatrice Lina Rhrissi, è anche un oggetto estetico che mira a muovere lo spettatore.
Le scene dei massacri sono interrotte da panorami sublimi e accompagnate da musiche originali potenti e canzoni profonde che narrano del dolore della gente.
Alla domanda della giornalista sulle motivazioni che hanno spinto il filmmaker belga a produrre “l’impero del silenzio”, Michel ha risposto: “Con “l’uomo che cura le donne” pubblicato nel 2016, la nostra denuncia si era appellata all’empatia e all’indignazione. Ma nulla è cambiato. Poi nel 2018, quando ha ricevuto il Nobel, nel suo discorso ad Oslo, Denis Mukwege ha sottolineato l’impotenza internazionale e ha fatto i nomi dei criminali che nessuno si sogna di menzionare.
Ho preso spunto da lui su questo. Anche il dottore ha messo tutto il suo peso dietro di me per fare quest’ultimo film”.
Nel prosieguo dell’intervista, Michel spiega cosa ha spinto l’ONU a tacere sul suo stesso Mapping Project che rendeva conto di 617 crimini di guerra e crimini contro l’umanità oltre a spiegare come sia possibile che tanti crimini tanto gravi avvengano nell’impunità.
Michel, inoltre, spiega che col nuovo presidente molti congolesi si sentono più sicuri nel parlare e esprimere quel che sanno delle violenze. Prima c’era l’autocensura.
Altro aspetto importante riguarda la scelta di includere nel film le immagini dei crimini filmati dagli stessi esecutori coi loro cellulari.
“Finora – dice il regista Michel – ho sempre privilegiato la testimonianza rispetto alle immagini grezze.
Ma questo film è una denuncia che deve portare al tribunale penale internazionale e a corti ibride in Congo. Abbiamo bisogno di prove.
Tuttavia queste guerre raramente appaiono nei media; i giornalisti non vanno in profondità nelle foreste congolesi.
Quando stai a Kiev, per esempio, c’è un hotel dove s’incontrano tutti i giornalisti la sera per scambiare informazioni e proteggersi.
Quando sei in mezzo al Congo, sei solo, abbandonato a te stesso.
Non sorprende che pochissimi si avventurino lì.
È una novità, inoltre, che gli esecutori filmino i loro crimini per mostrare il lavoro fatto ai loro superiori.
Non sapevano che quelle immagini sarebbero finite nelle mie mani. Sono stato il primo a trasmetterle in Europa e per questo sono stato bannato da YouTube.
Il ministro congolese dell’informazione lo ha negato, affermando che fosse falso. Ma ciò non le ha bloccate. Sono state condivise sui social e hanno raggiunto le Nazioni Unite.
La gente non poteva più dire di non sapere”.
Obiettivo del film?
“Capire e combattere l’amnesia. In modo che le vittime non muoiano una seconda volta e così che il Congo non possa essere dimenticato dalla storia. Più concretamente, spero di vedere la nascita di una dinamica che porterà finalmente a farci uscire dall’immobilità e dalla negazione.
Abbiamo bisogno di un tribunale penale internazionale. Le fosse comuni devono essere protette. Abbiamo bisogno della polizia giudiziaria. Necessitiamo di esperti forensi… Non è un lavoretto ma ciò non riguarda più il cinema”.