Il Kirghizistan è una piccola gemma montuosa che emana accoglienza e spontaneità. Il nome deriva da kirghiz(i)-, la versione italianizzata della traslitterazione russa kyrgyz e letteralmente significa “le quaranta tribù”. Il suffisso -stan invece viene dal persiano e significa “luogo” e quindi “Paese”. In Kirghizistan è normale incontrare yurte adagiate su pascoli d’alta montagna, scavallare picchi imbattendosi in strabilianti laghi turchesi, trovare cavalli in libertà, sentirsi schiacciati da un’ospitalità sconfinata e rimanere abbagliati dal verde delle possenti montagne del Tien Shan.

Di questo e molto altro abbiamo parlato con Simona Duci, giornalista, documentarista e fotografa. Ha collaborato con TeleBoario, Chiariweek ed è attualmente corrispondente di Bresciaoggi. Ambientalista, è stata referente e guardia ecozoofila OIPA e si interessa di ambiente, ecologia, diritti animali ed ecoreati. Recentemente ha preso parte della spedizione scientifica «Eden Forever», l’ambizioso progetto di UniBs, Orti botanici di Ome e Nagasaki-Brescia Kaki Tree alla ricerca del frutto del Malus Sieversii per il recupero dei suoi semi. 

Come è nata l’idea di andare in Kirghizistan?

Tutto è cominciato con la prima spedizione scientifica organizzata dal Kaki Tree Project in Giappone, mi pare cinque anni fa. Precisamente durante un confronto tra due teste da novanta: Francesco Foletti, presidente della realtà Kaki bresciana e il botanico curatore degli Orti di Ome Antonio De Matola. Dopo aver recuperato le piantine nate dal Kaki sopravvissuto alla bomba atomica, i due si sono promessi che tutta questa conoscenza genetica doveva essere salvata, che dovevano continuare la ricerca per mettere in salvo più Dna possibile.

Un desiderio poi fomentato nel tempo da una convenzione stipulata tra Orti botanici e Università di Brescia. Da quest’anno infatti gli studenti della Facoltà di farmacologia hanno creato un laboratorio a cielo aperto all’interno degli orti e proprio lì hanno cominciato le campionature con azoto per l’analisi di alcune piantine. All’interno dei due orti botanici di Ome esistono già specie vegetali che stanno scomparendo, della cui attività biologica non sappiamo nulla. Proprio da qui parte l’intento. Gli orti botanici sono un vero punto di partenza per lo studio delle piante medicinali. Inoltre De Matola voleva onorare con questo viaggio uno dei suoi mentori, lo scienziato russo Nikolaj Vavilov che ha studiato a lungo il Malus Sieversii. Vavilov è considerato ancora oggi padre di una scienza d’avanguardia ed è stato un pioniere nella ricerca e tutela della biodiversità. Spinto dal desiderio di eliminare la fame nel mondo, è poi rimasto vittima di un capovolgimento nella gestione statale sovietica dell’epoca. Dopo essere stato condannato a morte per spionaggio, è morto di fame nel 1943 in un ospedale-gulag a Saratov. Durante la sua carriera ha condotto 64 spedizioni di ricerca nel mondo. Le sue idee controcorrente sono state date alle fiamme dagli ufficiali dell’NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni) dopo il suo arresto, decisione che ha ritardato di 15 anni gli studi scientifici mondiali. Gli studi sul Malus Sieversii nel tempo sono rimasti incompleti.

A Ome si è sentito il bisogno di recuperare questa memoria prima che scomparisse. Da quel momento il meccanismo organizzativo ha preso il via. I nove partecipanti alla spedizione scientifica sono stati individuati, così come i partner per la missione: Fondazione Cogeme, Università di Brescia, Associazione Kaki Tree Project Europe, Orti Botanici di Ome e Comune di Ome. Per gli esploratori la scelta si è basata su capacità e competenze professionali.

Nella foto: Professor Antonio De Matola (botanico), Maria Bianchetti (catalogazione dati, specialista erbario), Cristina Rapino (biologa), Maria Giulia Monfardini (linguista e diarista di viaggio), Giuliano Aradori (ricercatore di storia medievale e idiomi locali, primo assistente), Francesco Foletti (logistica, capo spedizione), Francesca Marchegiano (scrittrice e studiosa di Nikolaj Vavilov), Giuseppe Palmeri, (esperto esploratore, chimico in farmaceutica), ed io come giornalista e filmmaker.

In viaggio per SaryCelek, nella foresta primigenia ospitati nella yurta del Presidente dei Nomadi

Il direttore della Facoltà di Bishkek con i due piloti della spedizione 

Come si è svolto il viaggio e quali zone avete attraversato?

Abbiamo camminato nelle più antiche foreste primigenie della Terra. Sono stati 20 giorni di ricerca tra steppe aride, paesaggi lunari, con tappe lungo le strade della Via della Seta; abbiamo percorso 2000 km da Nord a Sud del Kirghizistan. Tutto è stato predefinito grazie alla collaborazione dell’Università di Bishkek. Sulle tracce dei preziosi semi di Malus Sieversii, alla fine abbiamo trovato molto di più di quello che ci si aspettava. Appena atterrati all’aeroporto di Bishkek – Manas, siamo partiti dalla capitale, dove siamo stati accolti (alle 4 del mattino) dal Direttore della Facoltà di Agraria e Silvicoltura, Turgunbayev Kubanychbek Toktonazarovych, che noi abbiamo sempre chiamato amichevolmente Kuban. I primi due giorni sono stati occupati dagli incontri di rito, istituzionali, sia all’Università con il rettore e diversi docenti, colleghi di Kuban entusiasti del progetto internazionale, che con i diplomatici kirghisi. Siamo stati invitati a un colloquio in delegazione ristretta con il Ministro dell’Ambiente. Poi il terzo giorno è arrivato il momento della partenza verso le tre riserve dove secondo l’Università Kirghisa avremmo trovato riscontri per la ricerca, ossia Sary-Celek, Arslanbob e Kara – Alma.

Il viaggio è stato caratterizzato anche da alcune tappe impreviste sulle terre di mezzo, come sul Lago Song Köl a 3.000 metri di quota, con scorci indimenticabili, o nella Valle della Fergana con i suoi 40 gradi, oltre all’l’incontro con alberi centenari dalla storia improbabile. Non sono mancate nemmeno le disavventure. A parte alcuni malanni dei partecipanti, anche i guasti ai pulmini, che sono stati più di uno. E tra quelle montagne non è facile trovare un meccanico. Ci si affida al fai da te. Verso la seconda riserva, quella di Arslanbob per esempio è stato Pino il chimico della squadra a salvare la situazione con un coltellino svizzero, facendo una modifica al manicotto del radiatore, servita per arrivare da un meccanico in un paese che si trovava a 150 km da noi.

I viaggi sono stati massacranti, siamo stati messi alla prova sia psicologicamente che fisicamente. Le strade sono tutte dissestate e con buche profonde, in auto è come stare su una giostra da Luna Park vita natural durante. E poi la sabbia che ritrovavi nei capelli, nelle narici, in gola, ovunque. Quando si arrivava a destinazione nelle case forestali, ospiti del ranger o scienziato responsabile della riserva, ad aspettarti c’erano però il profumo del pane appena sfornato, le marmellate di albicocca e lamponi fatte in casa, le frittelle e il tè verde, la frutta saporita e polposa e poi tanti sorrisi e abbracci. Ci si coricava in camerate da 4 persone, piene di coperte perché alla sera le temperature scendevano, anche se di giorno faceva caldo. La doccia è stata un miraggio e il gabinetto era il classico “cesso” che si trova in campagna, con un buco nel terreno. Insomma i confort non c’erano, ma c’è stato molto sostegno tra noi nove, come anche da parte dei nostri grandiosi autisti (soprannominati Schumi e Schumi senior) e di Kuban.

 La spedizione incontra il Ministro dell’Ambiente e i parlamentari kirghisi

Che cosa avete trovato?

Già al primo giro di giostra abbiamo trovato tutto. Incredibile, non ci sembrava vero. Il botanico a capo della spedizione, Antonio De Matola, era a mille: abbiamo trovato il Malus Sieversii nel bel mezzo di una delle più grandi foreste di noci. Abbiamo camminato per chilometri sulle mele (dal DNA di 60 milioni di anni) cadute sul sentiero di fango rinsecchito lungo il quale siamo arrivati davanti a rari esemplari centenari. Tokò, lo scienziato vicedirettore della riserva di Sary Celek, ci ha portato davanti a ciò che stavamo cercando con grande facilità. Lui conosce a memoria le piante una per una, anche per posizione. Vive nella riserva da quando ha cinque anni.

Là è avvenuta la scoperta più importante, ovvero il recupero dei semi di Malus Sieversii (Melo Primigenio) che è stato accompagnato dalla scoperta del Malus Kirghizorum sia domestica sia Niedzwetzkyana: quattro specie anziché quella unica di Sieversii che la spedizione scientifica si era prefissata di trovare. A quanto pare tutte sono collegate e hanno contribuito alla trasformazione genetica del Sieversii. Si trattava a quel punto di raccogliere i frutti caduti e riportarli al quartier generale, dove poi con coltellino alla mano, tagliavamo i frutti con manovre delicate per non rovinare i semi e catalogarli all’interno di appositi contenitori. Anche per le erbe è stata una scoperta dopo l’altra, in tutto 90 specie sconosciute in Italia. De Matola e due assistenti si sono occupati di fare l’erbario. Un oggetto divenuto feticcio per De Matola, sul quale si narrano storie anche divertenti nei diari di viaggio.

Frutti del Malus Sieversii

Ritrovamento in Sary-celek delle quattro specie primigenie di Malus

Ogni giorno il taglio delle mele per il recupero dei semi

Foto di Simona Duci.