Il 17 dicembre 2021 sono state pubblicate le motivazioni della sentenza di condanna dell’ex Sindaco di Riace Domenico Lucano, e degli altri coimputati nel processo Xenia, emessa dal Tribunale di Locri il 30 settembre dello stesso anno. Qualunque (coraggioso) lettore delle oltre 900 pagine della sentenza potrà notare come la preoccupazione dominante espressa dal collegio giudicante di Locri andasse ben oltre la razionalità e la completezza delle motivazioni di una sentenza, occorreva demolire moralmente la figura di Lucano e qualificare un sistema di accoglienza diffusa , che aveva raccolto lodi anche a livello internazionale, come una bieca associazione per delinquere. Quelle pagine vanno lette tutte, e per intero, anche negli interminabili “copia e incolla”, che occupano più della metà delle motivazioni, tenendo presenti  i principi basilari sul contraddittorio ed i diritti di difesa sanciti dalla Costituzione italiana, oltre i principi dell’equo processo stabiliti negli atti dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa. Emerge molto nettamente come il collegio giudicante fosse particolarmente avvertito dell’impatto che la sentenza  avrebbe potuto avere (ed ha avuto) sull’opinione pubblica, in modo di allontanare il sospetto che la decisione fosse diretta alla criminalizzazione della solidarietà. Sospetto che tuttavia diventa plausibile, se si approfondiscono le singole argomentazioni dei giudici, le motivazioni su cui si basano e le conclusioni che tendono a raggiungere, come se si trattasse di risultanze oggettive ed incontrovertibili di fatto, come tali contestabili solo in base al principio di verità, piuttosto che di interpretazioni soggettive, seppure dotate della forza di sentenza.

In uno scritto, rimasto purtroppo incompiuto, Alessandro Dal Lago metteva bene in evidenza come il contenuto della decisione ed il distacco temporale tra il dispositivo di condanna e la pubblicazione delle motivazioni contribuissero a svolgere una precisa funzione “performativa” che incideva profondamente sui meccanismi di comunicazione e quindi sul senso comune, e dunque sull’accettazione delle condanne inflitte dai giudici. Secondo Dal Lago, “La frase, spesso ripetuta da qualche uomo politico, che le sentenze si appellano, ma non si commentano, tradisce la cautela nei confronti di un sistema “irritabile”, sensibile spesso in modo spasmodico alle critiche; ma rivela anche un atteggiamento ipocrita nei confronti della giustizia e soprattutto di chi la esercita. I giudici rappresenterebbero un corpo ammantato di sacralità, e il solo modo di contrastarne le decisioni sarebbe giocare il loro gioco, ovvero agire in base al sistema (di presupposti, retoriche, automatismi ecc. noti come diritto) entro cui hanno deciso o a cui fa riferimento esplicito la loro decisione. La realtà è che una sentenza, in quanto giudizio pubblico, è un atto performativo, una decisione gravida di effetti pratici, in primo luogo sugli attori che ne sono oggetto (nei procedimenti penali, gli imputati). Inoltre, si tratta di un fatto che rientra in una serie di sistemi interconnessi (linguistici, culturali e sociali), che hanno rilevanza pubblica e che possiamo definire discorso giudiziario efficace. Di conseguenza, una sentenza è inevitabilmente e naturalmente suscettibile di commento in quanto atto discorsivo. E questo vale, a maggior ragione per le motivazioni della sentenza del processo,, che vengono rese pubbliche qualche tempo dopo l’enunciazione solenne (in tribunale) del dispositivo. In realtà, in termini strettamente logici, le motivazioni rappresenterebbero le premesse o motivazioni di una sentenza elaborate alla fine del dibattimento. Ma il semplice fatto che siano rese pubbliche dopo la formulazione solenne della sentenza ne fa – oggettivamente – la giustificazione complessa di una decisione. In tale complessità rientrano considerazioni, giudizi e valutazioni ex post che ragionevolmente vanno al di là dei processi decisionali che hanno portato alla sentenza (penso a questioni stilistiche come abbellimenti, ironie, citazioni colte e non ecc.). Una sentenza è quindi espressione non solo della particolare versione del diritto penale a cui si attiene il giudice (in termini di sensibilità, pre-giudizi ecc.), ma anche della cultura in cui il suo giudizio è immerso. Questo vale non solo e non tanto per le questioni di interpretazione delle norme, ma per l’interpretazione dei “fatti”. Si consideri il seguente passo delle motivazioni della sentenza Lucano, in cui il giudice contrappone la versione della pubblica accusa (fatta propria dal Collegio giudicante) a quella della difesa.

Il processo ha consegnato al collegio una visione delle cose […] secondo cui le prove presenti in atti, “viste da vicino” – e cioè senza l’uso di lenti deformanti e, soprattutto, senza compiere fughe in avanti (realizzate nel tentativo di prescindere dalla piattaforma probatoria, cercando di ignorarla, in nome di una presunta persecuzione di natura politica, che si dimostrerà essere del tutti insussistente – hanno consentito di delineare una realtà fattuale di segno diverso., che è quella di cui si dirà a breve, la quale sarà tratteggiata lasciando fuori dalle carte ogni valutazione strumentale che di essa si voglia darne (ai più diversi fini), sforzandosi di documentare passo passo gli elementi di prova di cui si dispone, che saranno illustrati nella loro nuda oggettività e nel loro inequivoco significato (pag. 60).

Come osservava Dal Lago, “In questo e analoghi passi delle motivazioni emerge limpidamente la dicotomia epistemologica a cui il giudice dice di ispirarsi. Le prove “viste da vicino”, cioè nell’ottica dell’accusa, non comportano “lenti deformanti”, “fughe in avanti”, “valutazioni strumentali” (come quelle evidentemente “viste da lontano” della difesa), ma una “nuda oggettività” e un “inequivoco significato”.

In questo commento, mentre si stanno svolgendo le prime fasi del processo di appello davanti alla corte di Appello di Reggio Calabria, la prossima udienza è fissata per il 6 luglio prossimo, cercheremo di svolgere alcuni rilievi critici e di rendere evidente come la decisione adottata dal Tribunale di Locri sia solo apparentemente basata su prove di “inequivoco significato”. Mentre in realtà si fonda, anche per il linguaggio adottato, sui presupposti ideologici più diffusi all’epoca dei fatti contestati, dalla “pacchia dell’accoglienza”, fino agli interessi di arricchimento o di altri vantaggi che sarebbero stati perseguiti da coloro che operavano in associazioni senza fine di lucro per scopi solidaristici. Gli stessi presupposti valutativi sono facilmente rinvenibili anche in altre indagini avviate contro Organizzazioni non governative impegnate nei soccorsi in mare o nell’assistenza dei migranti entrati irregolarmente nel territorio italiano per chiedere asilo, a partire dal 2016. Quando si cominciava a contrastare la presenza di navi di soccorso in mare, e si cercava di limitare in tutti modi gli “sbarchi”, e dunque le dimensioni dei sistemi di accoglienza decentrata, allora inclusi in una fitta rete di enti locali (SPRAR). Si riteneva in questo modo, da parte dei governi del tempo, di  ridurre gli oneri dell’accoglienza gravanti sull’Italia per effetto della mancata riforma del Regolamento Dublino III del 2011, e dei sistemi di condivisione degli oneri di accoglienza in ambito europeo che ne derivavano. Come se invece fossero meno dispendiosi i grandi centri di accoglienza gestiti dalle prefetture in convenzione con i privati ( come ad esempio il CARA di Mineo) o i centri di prima accoglienza (Hotspot) e di accoglienza straordinaria (CAS) che si potevano aprire (e gestire) senza garantire percorsi di integrazione e con un minimo di controlli, in base alla Legge Puglia del 1995. Una legge che rimetteva alla mera discrezionalità amministrativa, di fatto alle prefetture ed al ministero dell’interno, il regime giuridico dei centri di prima accoglienza e  rendeva, come rende ancora oggi, del tutto precario lo status delle persone che vi venivano accolte. Da quella discrezionalità amministrativa che mutava ogni tre anni la natura dei centri di accoglienza e il regime giuridico e contabile che li caratterizzava, ed alla quale il sistema Riace tendeva a sottrarsi, sono nate prima le censure in sede amministrativa, poi il blocco dei fondi, quindi le indagini penali che hanno portato alla sentenza di condanna del Tribunale di Locri.

Se si vanno a considerare “da vicino” le singole argomentazioni addotte da un Collegio giudicante che a tratti sembra assumere quasi la veste dell’accusa, tanto da lamentarsi per non avere ottenuto risposte dagli imputati, ai quali avrebbe voluto “formulare domande” (p. 97), si rileva uno scarto ricorrente tra i fatti oggettivamente accertati, e quanto emerge dalla valanga di intercettazioni disposte a carico degli imputati. Al di là della dubbia legittimità di molte di queste intercettazioni, ma di questo ne tratteranno gli avvocati nel procedimento  di appello, si nota una interpretazione parziale ed orientata di ciascuna captazione registrata dalle autorità inquirenti, tale da scorporare la frase, segnata con tratti in grassetto, dal contesto del discorso nella quale è inserita, in modo da avvalorare le tesi dell’accusa, ed anche oltre, tanto che il collegio decidente arriva a riqualificare alcuni fatti già contestati dalla procura ed aumenta sensibilmente  l’ammontare delle pene, quasi raddoppiate rispetto a quelle richieste dalla stessa accusa.

Per gli avvocati difensori  Daqua e Pisapia,  condanne tanto gravi sono conseguenza di “Una lettura ‘forzata’, se non surreale” delle intercettazioni. Un’ “aberrante ‘tecnica’ di ‘silenziare’ gli elementi di prova”. Ma anche “un’inspiegabile lettura deformata dei dati fattuali emersi nel corso dell’istruttoria dibattimentale, che altra giustificazione non ha se non quella di dichiarare ad ogni costo’ responsabile” Mimmo Lucano. Per gli stessi avvocati, “Lucano appare nella motivazione del Tribunale come una figura avida, infida, arrogante, una controparte da perseguire più che una persona da sottoporre a giudizio per i fatti che gli vengono attribuiti. A questa ‘narrazione’ la difesa contrappone una ‘narrazione’ diversa e alternativa. L’obiettivo perseguito dal Lucano era uno solo ed in linea con quanto riportato nei manuali Sprarl’accoglienza e l’integrazione. Non c’è una sola emergenza dibattimentale (intercettazioni incluse) dalla quale si possa desumere che il fine che ha mosso l’agire del Lucano sia stato diverso. Le somme contestate non sono state utilizzate con la finalità di arricchire sé stessi o comunque le associazioni, ma destinate esclusivamente all’espletamento dei servizi previsti dalla confusionaria normativa di settore”.

Ad una lettura delle motivazioni addotte dal Tribunale di Locri, emergono diversi passaggi che fanno dubitare fortemente della “nuda oggettività” degli argomenti probatori su cui si fonda la condanna. Di certo nelle motivazioni sono stati inserite intere parti del faldone processuale formato dalla procura e prima ancora dalla polizia giudiziaria, e decine di pagine di sentenze della Corte di cassazione per estrapolare principi di diritto da casi molto distanti da quello qui in esame, mentre le argomentazioni della difesa vengono liquidate con considerazioni tanto sintetiche da far dubitare che i giudici abbiano letto per intero gli atti difensivi. Nella sentenza di condanna si individuano  per la prima volta profili di responsabilità sui quali gli imputati non hanno potuto esercitare i loro diritti di difesa nel dibattimento. Una tecnica argomentativa che si ritrova nei procedimenti penali contro le ONG che soccorrono migranti nel Mediterraneo, procedimenti che però, salvo poche eccezioni (come il caso Iuventa ancora aperto a Trapani) si sono risolti con provvedimenti di archiviazione. Nel caso del processo Xenia si è assistito ad una continua riqualificazione dei fatti, fino alla sentenza di condanna che proprio sulla base della modificazione del titolo dei reati contestati è giunta ad un cumulo di pene che quasi raddoppiano le richieste della pubblica accusa. Rilevare questi dati “oggettivi” significa esercitare un diritto di critica che è tanto più giustificato quanto i giudici, per motivare la sentenza di condanna fanno ricorso ad un linguaggio che sembra rivolto più ad una cerchia di potenziali lettori esterni al processo che agli imputati che hanno diritto a conoscere le motivazioni in fatto ed in diritto per  esercitare effettivamente i diritti di difesa e di ricorso.  .

In ogni caso, sembra quasi che  uomini, donne, minori, accolti a Riace vengano considerati come una massa indistinta, tanto che nel caso dei “lungo residenti” che riguardo ai minori ed agli altri soggetti in condizione di vulnerabilità. Gli immigrati vengono considerati solo come lo strumento per commettere una sfilza di reati tanto gravi, e rimangono sullo sfondo, come se si trattasse di “non-persone”, come meri oggetti, Su questo aspetto si registra lo scarto più netto tra la visione amministrativa e politica di Mimmo Lucano e la considerazione delle persone come entità numeriche oggetto di rendicontazione, che prevale nelle argomentazioni dell’accusa e nella decisione di condanna adottata dal collegio giudicante di Locri.

 

L’articolo di Vassallo Paleologo è la versione ridotta di un contributo più dettagliato pubblicato contemporaneamente su A-dif.org a cui si rinvia per l’opportuno approfondimento