Lo abbiamo chiesto al Prof. Davide Lovat, docente di scienze politiche con indirizzo storico, specializzato in filosofia del diritto.

Prof. Lovat, potrebbe illustraci quale sia l’etimologia della parola “Repubblica” e quali le sue implicazioni profonde?

La Repubblica è quel patrimonio materiale e immateriale di una nazione che appartiene, in modo indistinto ed esclusivo, a tutto il popolo che la costituisce come nazione.

Invece lo Stato è l’insieme delle istituzioni che il Popolo sovrano si dà per governare e amministrare la Res Publica, cioè quei beni materiali e immateriali che sono di proprietà condivisa da tutti i singoli cittadini titolari della sovranità. In democrazia la sovranità appartiene al Popolo e non allo Stato.

Della mia repubblica io ho la proprietà, in quota parte, e quando io eleggo dei rappresentanti, essi sono appunto deputati a esercitare il potere che è mio, a farlo in mio nome, e i beni della Res Publica non diventano di loro proprietà per il fatto che stanno esercitando il potere delegato; essi sono semplici amministratori del potere.

È questo uno dei concetti cardinali per cui ci si può avvalere dei principi di libertà: se noi non riscopriamo che siamo titolari della sovranità, ma siamo anche proprietari della Res Publica, finiremo da cittadini a essere inevitabilmente sudditi e quella che era prima una democrazia transiterà inevitabilmente in una tecnocrazia, dove a comandare sono persone nominate dall’alto, non più per conto del popolo, ma di chi le nomina, ovviamente.

In democrazia, che ruolo ha la tutela delle minoranze?

Qui c’è la logica conseguenza, e parto proprio dalla deformazione che se ne sta avendo: da qualche tempo, una ventina d’anni circa, per quanto riguarda il contesto della Repubblica italiana, sembra che ci sia la mentalità per la quale chi va al potere decide su tutto e chi perde le elezioni non conta più nulla, ma attenzione! In democrazia, proprio perché tutti hanno la sovranità e tutti hanno la proprietà della Res Publica, il fatto di vincere le elezioni conferisce il potere di dare un indirizzo di tipo legislativo, economico, normativo, a livello sociale, ma nel rispetto dei limiti costituzionali e senza mai poter escludere dai diritti fondamentali, civili, politici e costituzionali le persone appartenenti alla minoranza genericamente definita o a specifiche minoranze identificabili secondo un qualsiasi punto di vista.

Per cui, in democrazia la tutela delle minoranze è un principio qualificante: non c’è democrazia se le minoranze non vengono sempre riconosciute e tutelate nei loro diritti fondamentali e nella loro piena titolarità della Res Publica.

La Repubblica Italiana aveva mai vissuto una tale compressione delle libertà individuali e sociali prima d’ora?

Dal 1948, ovvero da quando la Repubblica ha cominciato ad esistere, no: non era mai accaduto da allora che si vivesse un periodo così lungo di compressione dei diritti e addirittura di violazione aperta di quelle che sono le garanzie costituzionali, con il pretesto dell’emergenza sanitaria; in ogni caso, mai si è arrivati a mettere addirittura in discussione la dignità della persona umana.

Perché quello che sta avvenendo al momento è l’introduzione di principi nuovi di “biopolitica” che vanno a incidere direttamente sulla dignità umana, sulla libertà delle persone, sull’indipendenza della persona umana dalle istituzioni. Non si possono mai sopprimere gli interessi individuali, o addirittura la persona umana, in nome dell’interesse collettivo, altrimenti è finita la democrazia e anche la dignità umana.

Però era successo prima della nascita della Repubblica e basterebbe guardare alla Costituzione: dopo i principi fondamentali (i primi 12 articoli), c’è la parte successiva (che va dall’art. 13 al 54) i​cui articoli, uno per uno, sono stati concepiti in reazione al fascismo. Si usciva dalla disfatta della guerra, dal Ventennio e quindi da un regime totalitario, e per marcare nettamente la differenza tra la Repubblica che nasceva e il regime precedente sono stati appunto concepiti quegli articoli.

Se noi guardiamo al periodo che stiamo vivendo – perché è tutt’altro che finito – vediamo come, uno per uno, quegli articoli sono stati subordinati all’emergenza sanitaria e sono stati violati parzialmente o addirittura totalmente; per cui, anche se c’è chi si straccia le vesti a sentir fare dei paragoni con il Ventennio, i fatti parlano, le opinioni valgono poco: purtroppo le analogie sono evidenti. Io sono il primo a contestare chi fa analogie con gli anni ‘40, per esempio con i lager, però, fino al ‘38/’39 ci si arriva in pieno; per arrivare ai lager si è passati appunto per il ‘38/’39/’40. Per cui, chi avendo vissuto in democrazia, ha sviluppato gli anticorpi al totalitarismo, reagisce come corpo sociale alla malattia di un nuovo totalitarismo e lancia l’allarme prima che la malattia sia mortale.

Potrebbe spiegare cosa significa e quali sono le implicazioni di questa frase dell’art. 32 della Costituzione: “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”?

Qui si fonda la democrazia liberale: innanzitutto, bisogna ricordarci che “persona” è un concetto guida, un pilastro della nostra civiltà e qui bisogna che io tiri in ballo anche la religione, perché il Cristianesimo ha plasmato la civiltà occidentale. “Persona” è un concetto che viene dalla teologia, più precisamente da quella trinitaria: quando il Figlio eterno, che è “Verbo che crea”, s’incarna diventando uomo e assume l’umanità, ecco che tutti gli esseri umani che sono in comunione con la persona del Figlio, diventano persone appunto, non sono più semplici animali, creature viventi, ma assumono una dignità divina. Questo è il principio più rivoluzionario del Cristianesimo, ma questa mia considerazione non è teologica, è filosofico-giuridica.

Ecco che ci possiamo collegare all’art. 32: quando noi definiamo il cittadino “persona”, diciamo che prima di essere cittadino è persona e ha una dignità che è addirittura divina, non è neanche umana, è superiore, per cui è talmente straordinaria la sua dignità, che non può mai essere subordinata agli interessi momentanei e contingenti della vita politica. Ecco perché anche l’interesse collettivo non può mai sopprimere la dignità del singolo.

Capite che in gioco c’è tantissimo, c’è veramente l’umanità: è in gioco l’umanità sia nel singolo, che nel suo complesso. Questo è un passaggio delicatissimo della nostra civiltà, che può avere risvolti pericolosissimi: se noi lasciamo che vada avanti l’approccio del Governo italiano, che è il peggiore di tutto l’Occidente, e se non lo contestiamo radicalmente prendendo coscienza di quella dignità di civiltà che è partita col Cristianesimo e che poi è stata assunta dagli ordinamenti civili laici, se noi abbandoniamo tutto questo, andiamo verso un futuro che definire distopico è poco.

Possiamo leggere questi tempi anche come l’occasione per un profondo cambiamento sociale? Lei quale auspica e come pensa che possiamo arrivarci?

Per noi potrebbe essere un’occasione se ci fosse consapevolezza del cambio di epoca portato dal fenomeno storico della globalizzazione, ovvero, grazie al progresso tecnologico, noi siamo entrati in un’epoca nella quale siamo tutti interconnessi in tempo reale; vorrei che ci fosse prima una presa di coscienza che non siamo più nel millennio scorso e che di conseguenza anche le istituzioni devono cambiare, ma devono cambiare in maniera da difendere le persone, perché il bene comune è il bene di tutti, non è il vantaggio di pochi.

Se vogliamo tutelare tutti i popoli e tutte le persone, anche le più svantaggiate, per garantire la perpetuazione della democrazia anche nel nuovo millennio, dobbiamo pensare a un cambiamento istituzionale. Gli Stati così come sono, sono ormai completamente inadeguati, ecco perché io propugno da diversi anni l’ipotesi di un’Europa diversa da quella che sta prendendo forma in seguito al Trattato di Lisbona, che diventa gli Stati Uniti d’Europa, un super-Stato, ma invece un’Europa dei popoli e delle comunità locali, organizzate in maniera simile alla Confederazione Elvetica, la federazione svizzera. Ci vorrebbero forme di espressione della democrazia sia nell’elezione dei rappresentanti, sia nel processo decisionale, che siano il più possibile locali, in maniera da rispettare le specificità, la bellezza nella differenza.

Andare verso l’indipendenza nell’interdipendenza – è questo il concetto su cui io batto sempre – cioè: l’autodeterminazione dei popoli fino al punto da rendere autonome o addirittura indipendenti le comunità locali.

Noi oggi siamo davanti a un gruppo ristretto e organizzato di élites mondiali che hanno ben chiaro dove vogliono andare e non è certo qualcosa di buono per noi poveri “deficienti” – nel senso che siamo in deficit sotto ogni punto di vista materiale rispetto a questi potentati. Per un’alternativa è innanzitutto necessaria una presa di coscienza e subito dopo un piano, una visione del mondo che sia strutturata a 360°, che consideri la persona, la comunità, la vita associata, l’economia. Una visione ampia che permetta di riorganizzare il mondo su base locale e globale insieme, salvaguardando la democrazia e la dignità della persona.