Christine Lagarde nel suo ultimo intervento, invertendo parzialmente la rotta fin ora seguita, e allineandosi a quanto già deciso da parte della FED, ha detto che al perdurare dell’inflazione la BCE sarà costretta ad intervenire sui tassi. I suoi collaboratori hanno poi precisato che potrebbero esserci due interventi al rialzo, il primo nel secondo semestre del 2022 seguito da un secondo nel primo semestre del 2023, entrambi presumibilmente di 25 punti ciascuno. Ricordiamo inoltre che gli interventi sui tassi saranno comunque preceduti dall’interruzione del sostegno alle economie fragili attraverso gli acquisti previsti nei piani del quantitative easing.

In realtà la Lagarde ha cercato di essere il più possibile prudente, consapevole che innescare un meccanismo di incertezza stavolta potrebbe essere veramente deleterio per tutta l’area euro, con le elezioni presidenziali francesi alle porte, e nelle quali Macron potrebbe essere sconfitto da un candidato euroscettico, e con una situazione economica in cui il colosso tedesco stavolta sembra rimasto al palo con un rimbalzo del PIL nel 2021, dopo la caduta dell’anno precedente, di appena il 2,7%, a fronte di una crescita del PIL italiano del 6,5%, di quello francese del 7%, e di quello spagnolo del 7,2%. Malgrado tanta moderazione lo spread italiano è cresciuto lo stesso di una ventina di punti nel giro di pochi giorni.

Cosa succederà in futuro nessuno può ovviamente prevederlo. La situazione è comunque complicata e gli scenari potrebbero anche essere abbastanza catastrofici. Molto dipenderà dall’andamento dell’inflazione, sulla quale tuttavia vi sono ragioni per non essere eccessivamente ottimisti. Si è sperato a lungo che il processo potesse essere di breve durata. Ma le cose potrebbero non andare così. 

Innanzitutto vale una considerazione empirica di tipo generale: La storia del secolo passato ci dice che i cicli che riguardano l’andamento dei prezzi non sono in genere brevi, e che in particolare l’inflazione una volta innescata tende a crescere su se stessa, probabilmente per una serie di ragioni (effetto “aspettative”; Manovre speculative ecc.). L’attuale processo inflattivo poi, contrariamente a quanto sperato, è legato solo in parte a questioni contingenti. Certamente tra le cause della crescita dei prezzi ci sono le criticità e le strozzature prodottesi nella catena degli approvvigionamenti, soprattutto delle materie prime, a seguito della emergenza sanitaria, che ha inceppato il sistema commerciale a livello globale. Da questa situazione, cercando di essere ottimisti, si può sperare di venire fuori in tempi ragionevoli.

Vi sono tuttavia altre situazioni che influenzano lo stato dell’economia e che mettono in gioco questioni più complesse e di più lungo periodo. Il  dato strutturale più significativo è legato probabilmente alle vicende della svolta Green della comunità europea, che ha generato, almeno in parte, l’aumento dei costi dell’energia. E’ innanzitutto raddoppiato il costo delle concessioni per l’emissione di CO2, che le autorità europee emettono in maniera sempre più ridotta, e che vengono poi scambiate dalle aziende sul mercato a prezzi sempre più alti. La Russia inoltre, che è la maggiore fornitrice di gas naturale sul mercato europeo, ha deciso, malgrado l’incentivo dato dall’aumento dei prezzi, di mantenere le forniture ai minimi stabiliti dagli accordi ufficiali, forse sperando di strappare per il futuro condizioni contrattuali migliori, ma forse, e soprattutto, perché attratta dalla crescente richiesta dei mercati asiatici, nei quali i prezzi sono da sempre più alti. 

VI sono infine situazioni di grande incertezza e instabilità nella situazione geopolitica globale, i cui effetti sono, e molto probabilmente saranno sempre di più significativi sull’andamento dell’economia e dell’inflazione. Non scordiamoci, per cominciare, della guerra commerciale, ma nella sostanza anche politico-militare, tra Stati Uniti e Cina, che malgrado sia al momento sotto traccia nell’attenzione dei media, è ciò che probabilmente caratterizzerà il lungo periodo, ma che non è detto non possa produrre  in tempi brevi eventi significativi.

Più legata all’attualità, e a noi più vicina e più immediatamente pericolosa, è la crisi che riguarda la questione Ucraina. I venti di guerra soffiano sempre più forte. I movimenti pacifisti si sono messi in moto, e le stesse diplomazie europee, consci della gravità della situazione specialmente per le vicende del vecchio continente, cercano di arginare in qualche modo la situazione. Io al momento non penso si possa essere ottimisti. Al fondo la questione è legata alla entrata dell’Ucraina nella NATO, e francamente non vedo perché l’aggressività imperialista americana dovrebbe rinunciare a piantare questa fondamentale bandierina nello scacchiere internazionale, specialmente dopo lo smacco subito in Afghanistan. Né mi pare possibile che la Russia possa, anche a ragione, rinunciare alla propria sicurezza, con i missili nucleari sotto il naso. In mezzo sta l’Europa che come al solito starà attaccata al carrozzone a stelle e strisce, con tutte le conseguenze del caso.

Come ho già detto nessuno ha la sfera di cristallo per leggere il futuro, ma la situazione è tale che anche lo scenario più catastrofico, non appare al momento inverosimile. Se l’economia del vecchio continente dovesse entrare in una fase critica e l’inflazione dovesse continuare a crescere agli attuali ritmi, la BCE, seguendo i canoni intoccabili e (falso)scientifici dell’imperante dominio neo liberista, sarebbe spinta ad attuare politiche fortemente restrittive e a intervenire ripetutamente aumentando i tassi, con la conseguenza di una crescita incontrollabile dello spread per i paesi mediterranei, e per l’Italia in particolare. Siamo ovviamente nel campo delle pure ipotesi, ma se qualcosa di simile dovesse malauguratamente realizzarsi,  allora credo non saremmo molto lontani, almeno per certi versi, a quella situazione  di concomitanza di stagnazione economica e crescita dell’inflazione che si è già verificata negli anni settanta , e a cui allora si diede il nome di stagflazione. Solo che la situazione oggi sarebbe di gran lunga peggiore. Proviamo a capire perché.

La grande recessione che si determinò negli anni settanta, a seguito della crisi petrolifera, ha segnato la fine dei “gloriosi trenta” (1945-1975. Considerati anni di costante crescita del benessere) e il passaggio definitivo dalle politiche sociali di stampo keynesiano all’incontrastato dominio di logiche neoliberiste. All’inizio tuttavia la crisi fu affrontata ancora con strumenti che erano tipici dello stato sociale ispirato a pratiche di mediazione di classe. Alla galoppante inflazione si opponeva innanzitutto, come strumento di difesa del potere d’acquisto dei lavoratori, la vecchia “scala mobile”, che adeguava i salari all’inflazione. Va inoltre considerato il fatto che i governi avevano un ampio margine di discrezionalità sulle scelte di intervento e sostegno sociale, potendo monetizzare almeno in parte la spesa pubblica, grazie allo stretto rapporto con le banche centrali che “producevano denaro”, tenendo conto delle scelte della politica. E’ evidente che queste misure non servivano a combattere l’inflazione in quanto tale, ma a neutralizzarne gli effetti di moltiplicatore delle diseguaglianze sociali e di impoverimento della popolazione più fragile. Per questa ragione furono progressivamente abbandonate. Nel 1981 si realizzò il divorzio tra tesoro e banca d’Italia . Nel 1992 fu abolita definitivamente la scala mobile. Scelte simili vennero fatte in tutta Europa con tempistiche diverse, ma trovando una sintesi nello sviluppo delle istituzioni europee, fino alla nascita della BCE e all’entrata in vigore dell’euro.

Oggi in una situazione di rallentamento della crescita e concomitante crescita dell’inflazione, il governo italiano, e in genere i governi dei paesi più fragili, si troverebbero nella più assoluta impotenza, del tutto in balia dei mercati e delle decisioni degli organismi sovranazionali. Con lo spread alle stelle, l’unica soluzione sarebbe quella dell’adozione di politiche fortemente recessive, o comunque eterodirette.  

In questi scenari, c’è poi una variabile che potrebbe ulteriormente sparigliare le carte:  Si tratta della possibile crescita, anche molto significativa, della conflittualità sociale, che potrebbe sfociare nella nascita di forti movimenti di opposizione, di cui credo ci siano alcuni incoraggianti segnali; da diverse sacche di resistenza operaia, al recente ritorno in piazza degli studenti, al nuovo interesse per la difesa dei diritti umani , fino ai temi della guerra e della pace a seguito della crisi ucraina.  

Credo che in una situazione di forte conflittualità i governi post-democratici a noi contemporanei, nella totale assenza di strumenti di mediazione sociale, non abbiano altra alternativa che quella di una governance fortemente autoritaria e repressiva, che allo stato delle cose mi pare una sorta di condizione destinale, di cui bisogna essere consapevoli.

A questo punto sul rapporto tra potere costituito e movimenti si dovrebbe aprire un altro e lungo discorso. Mi limito ad una sola considerazione: In prospettiva bisognerebbe muoversi oltre le barriere nazionali, trovando punti di collegamento, comunanza di intenti, omogeneità di parole d’ordine ecc. In sostanza una globalità  antagonista contrapposta alla globalità dominante. Un discorso da riprendere e approfondire.