Nelle more della “Prima dell’Assemblea nazionale studentesca” di dopodomani (sabato 5) a Roma, vogliamo esprimere alcune considerazioni  sugli effetti dell’ennesima misura di prevenzione repressiva perpetrata in questi giorni contro gli studenti del movimento romano “la Lupa”, così definito dai media in analogia con quello della “Pantera” del 1989-1990

 

Il 20 dicembre 2021, l’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio aveva inviato una circolare ai presidi di 60 scuole superiori della capitale, tra licei e istituti tecnici, che erano state occupate nell’autunno, invitandoli a denunciare i responsabili dell’interruzione di pubblico servizio e chiedere alla polizia lo sgombero dei locali. Solo adesso, a fine quadrimestre e con gli scrutini alle porte, i dirigenti scolastici hanno decretato una serie di sospensioni, fino a 15 giorni, il massimo comminabile, e col divieto di seguire le lezioni, ai presunti organizzatori. Proprio adesso quando, tra l’altro, con determinazione e coraggio, alcune scuole in varie città sono state di nuovo occupate, in risposta alle cariche delle forze armate contro i cortei di protesta per l’assassinio di Lorenzo Parelli, ucciso a Udine da una trave durante l’alternanza scuola-lavoro. Le parole d’ordine della lotta restano: «la scuola non è un’azienda, i presidi non sono manager, il sapere non è profitto».

Perché ovunque, da Torino a Napoli, da Roma a Milano, la risposta dello Stato al malessere e alle sacrosante denunce dei giovani, è stata l’impiego di fumogeni e manganelli? Proprio perché, compatti e in tutta Italia, i ragazzi hanno smascherato l’incuria totale delle istituzioni politiche, completamente indifferenti alla salute intellettuale e morale nonché alla salute fisica dei cittadini, completamente avulse dalla società civile, i cui bisogni ignorano o fingono di ignorare, completamente prone ai diktat delle autorità che di fatto comandano in epoca di sindemia globale, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Europea, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, i colossi multinazionali dei farmaci, dell’energia, etc. Non è un caso che nel Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza non si faccia parola o quasi di una ristrutturazione di istruzione e sanità.

Anni fa, con l’avvento del neoliberismo, perfino i nomi dei dicasteri preposti furono significativamente cambiati: sparì la dicitura “pubblica” dalla titolazione del Ministero per l’Istruzione e la Sanità (statale) si convertì in Salute (privata). Gli esiti di questa dismissione di responsabilità politica sono stati sotto gli occhi di tutti: dal disastro negli ospedali della Lombardia, dediti esclusivamente alle specializzazioni più costose e dimentichi della medicina di prossimità, all’epoca della cosiddetta prima ondata, fino al ricorso alla didattica a distanza, che ha fatto la fortuna di piattaforme come Google Classroom o Zoom, ma ha gettato nella più grave incertezza, stanchezza e solitudine insegnanti e alunni.

Cosa invece sarebbe occorso i ragazzi, e i docenti al loro fianco, lo sapevano bene e lo hanno gridato a gran voce: dimezzamento del numero di alunni per classe e raddoppio degli insegnanti (con l’indizione di nuovi concorsi a cattedra e l’assunzione in via definitiva di nuovo personale), con reperimento di nuovi edifici e locali, per garantire il necessario distanziamento; creazione o miglioramenti nei sistemi di areazione, in modo da permettere una più serena ripresa delle lezioni in presenza; assistenza domiciliare per i malati di Covid 19 ossia ripristino della medicina territoriale, per consentire la cura e il ricovero anche per altre patologie gravi, colpevolmente trascurate…  A livello internazionale la sospensione dei brevetti, in modo da vaccinare tutto il pianeta e non solo i Paesi ricchi, ed evitare l’insorgenza di ripetute varianti. E sui tempi lunghi (ma non troppo!) la realizzazione di un diverso sistema economico e di una società della cura. Insomma investimenti notevoli che non sono avvenuti e non avverranno e imposizione di una volontà politica democratica ai grandi complessi finanziari, cosa di cui nessun organismo, né locale né globale, sembra ormai più capace. Tutto questo i giovani, gli stessi di Fridays for Future o ExtinctionRebellion, hanno capito ed esplicitato a chiare lettere, sostenuti nelle loro manifestazioni anche da alcuni sindacati di base (e non solo) che hanno indetto scioperi nei giorni dei cortei, consentendo così anche ai docenti di parteciparvi.

E non è un caso neppure che la repressione sia stata decisa da un ceto politico privo di autorevolezza e di consenso sociale, in disgregazione per la sua impotenza di fronte alle leggi dei mercati, incapace di progettualità e rissosamente conflittuale solo per ragioni di potere, come l’elezione del Presidente della Repubblica ha spudoratamente dimostrato.

Mentre scrivo, proseguono presidi e occupazioni. Ma da più parti si obietta che si tratta di forme di lotta obsolete e pertanto inefficaci; peccato però che non si proponga nulla di alternativo, a parte petizioni e raccolte di firme on line che non sembrano risultare più efficaci contro il grande Leviatano capitalista… In realtà, nel tempo, le occupazioni hanno mutato obiettivi e fisionomia, non sono rimaste sempre identiche. Nel 1968, si contestava la struttura gerarchica e autoritaria di Scuola e Università, ma soprattutto l’arretratezza dei programmi di studio, che escludevano tutto il Novecento dalla storia come dalla letteratura, dall’arte come dalla fisica e dalla filosofia, rimuovendo tutto il portato rivoluzionario di quel secolo («A scuola non si fa politica» era il mantra dei professori in giacca e cravatta).

Nell’autunno successivo, l’autunno caldo come fu detto, si scoprì l’alleanza con la classe operaia, da cui scaturì lo Statuto dei Lavoratori, oggi per gran parte dismesso, e si avviò il nuovo femminismo, che avrebbe condotto alle leggi sul divorzio e sui consultori familiari, la 194 che oggi si vuole sfasciare.

Nel 1977, i giovani espressero tutta la loro rabbia contro la crescente disoccupazione, anche intellettuale, e la costrizione alla cosiddetta “fuga dei cervelli” all’estero, ma elaborarono anche un’analisi teorica delle nuove forme che il capitalismo veniva assumendo. (Complessa e dolorosa la questione della scelta di alcuni della lotta armata, che qui non c’è spazio di esaminare.)

Nel 1989, la Pantera si oppose al giro di vite che, in nome di una sedicente autonomia, consentiva l’ingresso dei privati negli istituti dell’istruzione pubblica e li rimodulava in chiave verticistica.

Oggi i ragazzi rivendicano un controllo sull’impiego dei fondi in arrivo dall’Europa ed esigono che molti siano investiti nell’istruzione e nella ricerca, oltre che nella cura dell’ambiente. E naturalmente vogliono la cancellazione dell’alternanza scuola-lavoro, una sorte di reintroduzione del “garzonato” medievale voluta dalla cd. “Buona Scuola” renziana e pomposamente ribattezzata PCTO, “Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento”, dai più vicini governi. Essa, se è soltanto un’inutile perdita di tempo nei licei, diventa invece mortalmente pericolosa ai tecnici, dove gli studenti sono sfruttati come manodopera gratuita e senza misure di sicurezza. Ripropone, in sintesi, la differenza di classe tra “ginnasio” e “avviamento” di gentiliana memoria! I sindacati degli insegnanti per anni e inutilmente le si sono battuti contro.

Non finisce qui, però: gli studenti stanno reagendo alla repressione con la creazione di una rete di collegamento nazionale e si danno appuntamento al 5 febbraio per altre iniziative in tante città d’Italia.