A poco dall’inizio delle procedure di voto e nel caos di una emergenza pandemica sempre più grave , continua ad impazzare il toto presidente, anche se al momento pare che l’unica candidatura ufficiale sia quella, per varie ragioni inquietante, di Silvio Berlusconi. Probabilmente l’unico elemento di novità degli ultimi giorni è stato rappresentato dall’appello firmato da Dacia Maraini, che sottolineava come i tempi siano ormai maturi perché alla più alta carica dello Stato acceda una donna.  Per la verità qualcuno ha voluto ricordare, a proposito di attualità  dei tempi, che la questione fu posta, più o meno con le stesse argomentazioni, da Nilde Iotti ormai all’incirca una trentina di anni fa. 

Certamente l’elezione di una donna avrebbe un forte valore simbolico, che tuttavia non può essere assolutizzato e neppure valutato in tutta la sua dirompenza, se non si pongono preliminarmente alcune questioni sostanziali. Cercherò di spiegarmi meglio.

E’ certo che al momento sulla identità del futuro inquilino del Colle non si possono fare previsioni se non in termini di pure scommesse. Tuttavia su alcuni aspetti essenziali del suo identikit credo si possano dire parecchie cose, senza timore di essere smentiti. Il prossimo Presidente, per prassi consolidata, sarà scelto tra i politici di professione, e non per esempio tra gli esponenti della cultura o della società civile. Circostanza quest’ultima che evidentemente potrebbe moltiplicare gli scenari e aprire ad altre più complesse considerazioni. Il prescelto sarà dunque e certamente un personaggio, in vari modi, e da più o meno tempo, attivo nella storia politica e  istituzionale della Repubblica, e della cosiddetta “seconda Repubblica” in particolare. Questo significa che sarà comunque, e a prescindere dall’essere uomo o donna, espressione del pensiero unico del neo liberismo imperante. Esponente, più o meno diretto, di quella classe politica che a partire dagli anni novanta ha privatizzato le imprese di Stato e di fatto smantellato e distrutto welfare e politiche sociali, in particolare nel campo della previdenza, dell’istruzione e della sanità pubblica. 

Il fatto che il futuro primo cittadino della Repubblica sarà comunque lontanissimo dal nostro modo di intendere la politica e dalle esigenze di libertà e uguaglianza sociale che ci caratterizzano, non significa, ovviamente, che si debba essere indifferenti alla scelta del nome e alle caratteristiche peculiari del suo credo politico e del suo possibile modo di interpretare l’alta carica. Lo schieramento parlamentare di provenienza è certamente una questione fortemente significativa, ma forse c’è qualcosa di ancora più importante di cui tenere conto. Credo, in generale, che il nostro atteggiamento debba essere quello, se si vuole puramente difensivo e resistenziale, di impedire che nella pratica politica e istituzionale si possano verificare fatti e circostanze che, magari in modo non sempre del tutto evidente, possano rappresentare il presupposto per una interpretazione regressiva del testo costituzionale, se non addirittura per una sua possibile futura modifica formale.

Chiarisco che la difesa della Costituzione Repubblicana è un valore universalmente accettato proprio per la vaghezza del suo significato. La Costituzione in fondo non è che un “pezzo di carta”, e la sua fragilità consiste nel fatto che i suoi contenuti hanno bisogno di essere resi efficaci dalla legislazione ordinaria, che può operare con ampi margini di interpretazione e con esiti molto diversi.  Su questa base il vecchio Partito Comunista, nell’entusiasmo della vittoria della resistenza, ipotizzava una costante radicalizzazione in senso socialista dei valori della nostra Carta, in una sorta di lunga marcia del popolo dentro le istituzioni, esemplificata nel concetto di “democrazia progressiva”. Sappiamo come sono andate le cose. Il passaggio delle logiche della governance, dalle politiche keynesiane al trionfo del neoliberismo, ha caratterizzato invece la storia della Repubblica come l’affermarsi di una sorta di “autoritarismo progressivo”.

Sic stantibus rebus non possiamo che muoverci nella logica difensiva del “meno peggio”, che ci porta ad auspicare un futuro Presidente che sia attentissimo ai limiti del ruolo tipici di una Repubblica parlamentare. Non leader politico riconosciuto (né Draghi, né Berlusconi), non invasivo e non decisionista, non interprete della Costituzione, ma difensore, anche “pedante” dei suoi contenuti testuali.  

Per concludere: una donna al Quirinale? Certo sarebbe auspicabile! ma solo nel rispetto delle priorità che abbiamo indicato. Lasciatemi dire infine che la profonda sfiducia nella nostra classe politica e nello stesso modo di funzionamento delle nostre istituzioni, sfiducia legata anche a questioni di principio e a considerazioni di “appartenenze di classe”, mi lascia abbastanza indifferente alla questione della presenza femminile. (Detto di passaggio: Che dire della possibilità della Meloni prima donna presidente del consiglio nella storia della Repubblica nata dalla resistenza?). Il movimento di liberazione della donna passa per altre vie, anzi, se mi si scusa il facile gioco di parole, direi che passa “per altre piazze”.